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Vecchiaia della Sibilla

Mentre guida Enea attraverso l’Averno, la Sibilla racconta la sua storia. Febo, innamoratosi di lei, le offriva in cambio del suo amore qualunque cosa desiderasse. Allora la Sibilla raccolse un mucchio di polvere e chiese tanti anni quanti erano i granelli in quella manciata. Una dimenticanza, però, le fu fatale: non ricordò di precisare che quegli anni dovevano essere di gioventù. Di certo Febo le avrebbe concesso una perenne giovinezza, se solo la Sibilla avesse accettato l’amore che invece rifiutò. «E ormai – continuò – l’età più felice mi ha voltato le spalle e la gravosa vecchiaia avanza col suo passo tremante. Ho vissuto sette secoli e ancora mi attendono trecento estati e trecento autunni. Verrà il momento in cui il mio corpo si rattrappirà e la vecchiaia consumerà le mie membra riducendole a un mucchietto d’ossa. Allora chiunque dubiterà che io sia piaciuta a un dio»1.

Fonti
  1. Ovidio, Met. 14, 129-152

Commento

Nelle parole della Sibilla la vecchiaia non ha nulla dell’autorevolezza e della sacralità che contraddistinguono la vecchiaia al maschile, capace di soppiantare le forze del corpo con altre qualità: l’età senile si riduce per la donna a una fase penosa dell’esistenza, il cui tratto caratteristico è la metamorfosi del corpo destinato a ridursi a un mucchio di ossa

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