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Miti

Nascita di Orione

Irieo

vive a Tanagra e non può procreare. Un giorno accoglie nella propria casa Zeus, Hermes e Poseidone. I tre immortali, per ricompensare l’uomo dell’ospitalità ricevuta, s’impegnano a esaudire il suo massimo desiderio. Irieo chiede un figlio. Allora gli dèi prendono la pelle del bue o del toro che era stato loro sacrificato, la 'inseminano' (apespermenan), poi ingiungono a Irieo di interrarla e di recuperarla dopo dieci mesi. Al compiersi di questo tempo nasce Urione, così denominato dall’atto di urinare (to ouresai) nella pelle bovina compiuto dalla triade divina, nome che poi si muterà in quello di Orione con il quale il personaggio sarà comunemente noto1.

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Romolo e Remo, origine dei Lupercalia

Il Palatino era in festa: i pastori celebravano i consueti sacrifici in onore di Fauno. Mentre i sacerdoti erano intenti a preparare le viscere di una capretta, d’un tratto si odono le urla di un pastore: «Romolo, Remo, i predoni rubano i nostri animali!». I gemelli si attivano immediatamente e nudi come sono si lanciano all’inseguimento, da una parte Romolo con il gruppo dei Quintili, dall’altra Remo con il gruppo dei Fabi. Remo per primo riesce a recuperare gli animali rapiti e, tornando al banchetto, consuma le viscere; poco dopo torna anche Romolo, che al vedere la tavola vuota e le ossa spolpate si mette a ridere. Per questo ogni anno i Luperci corrono nudi1.

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Morte di Tullo Ostilio

Sotto il regno di Tullo Ostilio, a Roma, scoppia una grave pestilenza, che finisce per colpire lo stesso sovrano. Così proprio lui, che aveva sempre ritenuto indegne di un re le pratiche religiose, d’un tratto divenne schiavo di ogni genere di superstizione. Tutti sapevano che per ottenere la salvezza di quei corpi malati era opportuno invocare l’aiuto degli dèi seguendo le prescrizioni di Numa. E così il re in persona si mise a consultare i libri di Numa, alla ricerca disperata di un rimedio sicuro al suo male. Dopo attenta lettura, trovò in quei libri la descrizione dei sacrifici in onore di Giove Elicio e si ritirò in solitudine nella reggia sul Celio, per compiere quel rito da solo, di nascosto da tutti. Ma stava sbagliando ogni cosa: non solo celebrava per se stesso riti pattuiti da Giove e Numa per il bene collettivo, ma non rispettava neppure il Coretto svolgimento della pratica rituale. E allora Giove, irato per tanta tracotanza ed esasperato dall’irregolarità del rito, fulminò il re e lo incenerì insieme alla sua casa1.

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Integrazione tra Romani e Sabini

Una volta conquistato il Campidoglio, i Sabini devono far fronte al rinnovato impeto delle truppe romane, ansiose di vendetta. Dalla mischia emergono due valorose figure: Mezio Curzio per i Sabini e Osto Ostilio per i Romani. Quest’ultimo però cade sul campo, gettando i compagni nello sconforto; Romolo supplica allora Giove di arrestare la fuga e salvare la città, promettendo in cambio la costruzione di un tempio al dio come “Statore”. I Romani riprendono a combattere e riescono a disarcionare dal cavallo Mezio Curzio; questi precipita quindi in una palude, nell’area che più tardi sarebbe stata occupata dal Foro. A ricordo dell’evento, tale parte del Foro sarà denominata Lacus Curtius. Sostenuto dalle acclamazioni dei Sabini, comunque, Mezio si tira fuori dall’acquitrino e la battaglia riprende nella valle fra Campidoglio e Palatino. Sono le donne sabine che a questo punto imprimono una svolta alle vicende, gettandosi in mezzo alle schiere e supplicando entrambe le parti di porre termine a quella che è divenuta ormai una guerra civile. Gli uomini in lotta, commossi dall’accorato appello, acconsentono alla pace e decidono di fondere le due città. I Sabini si trasferiscono a Roma, dove Tazio diviene re al pari di Romolo. La diarchia così inaugurata prosegue all’insegna della piena concordia, finché un sinistro incidente non spezza la vita del coreggente sabino. Alcuni parenti di Tazio usano violenza contro gli ambasciatori dei Laurentini, e allorché questi domandano giustizia, Tazio non ha la forza di opporsi alle suppliche dei suoi. Perciò, quando il re sabino si reca a Lavinio allo scopo di celebrare un sacrificio, i Laurentini si vendicano uccidendolo12.

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Morte di Tito Tazio: empietà e contaminazione

È infatti a Lavinio che si consuma un altro gesto di empietà e violenza, teso a pareggiare il debito di sangue: Tazio è assassinato mentre officia un sacrificio, in un momento in cui la prassi religiosa esige il massimo della purezza e dello scrupolo. Accade invece che il re sabino muoia «trafitto presso gli altari dai coltelli sacrificali e dagli spiedi utilizzati per trapassare i buoi»1. Il sangue degli animali consacrati, offerto per la città e per gli dèi, è orribilmente mescolato a quello del celebrante, al culmine di una faida fra popoli consanguinei. Al delitto fanno seguito una serie di eventi infausti: un’inattesa pestilenza si abbatte sugli abitanti di Roma e Lavinio, la terra e gli animali domestici divengono sterili e una pioggia di sangue si rovescia sui luoghi. Né i Romani né i Laurentini hanno dubbi sul fatto che l’ira divina sia stata provocata dai due atti di empietà rimasti inespiati: l’omicidio degli ambasciatori e il linciaggio di Tazio. Dopo la morte di quest’ultimo, infatti, Romolo si era rifiutato di punire i colpevoli, asserendo che il primo fatto di sangue era stato cancellato dal secondo. Nessun effetto sortisce comunque la sollecitudine religiosa con cui Romolo dà sepoltura al collega sull’Aventino, istituendo presso la sua tomba un culto funebre che prevede l’offerta annuale di libagioni a spese della comunità, identiche a quelle che si versavano sul Campidoglio per l’ambigua eroina Tarpea. Il re deve dunque rassegnarsi a fare piena giustizia: vengono puniti sia gli aggressori degli ambasciatori laurentini sia gli assassini di Tazio e le due città sono purificate attraverso apposite cerimonie lustrali. Anche questi riti entrarono nell’uso tradizionale ed ebbero come sfondo, nei secoli successivi, una non meglio precisata Porta Ferentina2.

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Odisseo e la caccia

Invitato al palazzo del nonno Autolico sul Parnaso, Odisseo partecipa insieme agli zii ad una battuta di caccia al cinghiale, nel corso della quale fa mostra di tutto il suo coraggio. Benché ferito a un ginocchio, nello scontro con l’animale, riesce ad avere la meglio. Soccorso e curato dagli zii, Odisseo giunge al palazzo con la sua preda che gli vale la consegna di ricchi doni da parte di Autolico e festeggiamenti a palazzo con un banchetto. Approdati sull’isola di Circe, Odisseo e i suoi compagni patiscono la fame per due giorni, fino a quando l’eroe non decide di andare in esplorazione e, per intervento divino, si imbatte in un grande cervo, la cui uccisione viene, ancora una volta, celebrata con un banchetto. Meno fortunata è la caccia dei compagni di Odisseo sull’isola di Scilla quando, perseguitati dalla fame e benché vincolati da un giuramento, si risolvono a cacciare le vacche sacre al Sole. Il banchetto che segue, con animali solitamente destinati al sacrificio, provoca la reazione degli dèi che si abbatte violenta sulle navi1.

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Stupri in occasione dei baccanali

La diffusione dei riti in onore di Bacco preoccupa il console Postumio, che decide di svolgere delle indagini. Scopre allora che le cose erano degenerate da quando la sacerdotessa Paculla Annia aveva cambiato il rito da diurno in notturno e aveva preso a iniziare al culto anche gli uomini. In tale promiscuità, allorché i maschi erano mescolati alle femmine e il favore della notte stimolava la licenza più sfrenata, nessuna infamia era vietata. La maggior parte degli stupri erano commessi dagli uomini tra loro piuttosto che sulle donne; e se qualcuno era meno disposto a sopportare il disonore o più svogliato al delitto veniva sacrificato. Negli ultimi anni si era perfino stabilito che non fosse iniziato nessuno al di sopra dei vent’anni, poiché si riteneva che i ragazzi di quell’età fossero più disposti a tollerare lo stupro1.

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Pegaso aiutante nelle imprese di Bellerofonte

Nato dalla testa mozzata della gorgone Medusa, che l’aveva concepito da Poseidone, Pegaso è un cavallo straordinariamente focoso e indomabile. Come molti destrieri mitici dotati di velocità eccezionale, è alato e dunque invincibile nella corsa, ma impossibile da sottomettere per un essere umano. Quando l’eroe corinzio Bellerofonte, secondo alcuni figlio di Poseidone lui stesso [Pindaro], lo cattura mentre si abbevera presso la sorgente Pirene, il cavallo rifiuta di farsi montare. Bellerofonte ha tuttavia la sorte di ottenere l’intervento della dea della tecnica, Atena. Apparsagli in sogno, gli dona un morso d’oro incantato, capace di domare magicamente qualunque cavallo e gli ordina di sacrificare un toro a Poseidone1. Bellerofonte esegue gli ordini divini aggiungendovi, su suggerimento dell’indovino Poliido, anche la dedica di un altare ad Atena Ippia (“dei cavalli”) – a Corinto la dea era anche invocata come Chalinitis (“delle briglie”). Con tanto favore divino, l’eroe finalmente può salire in groppa al destriero e partire per una serie di imprese leggendarie, imposte dal re di Licia: come le fonti non mancano di sottolineare2è grazie a Pegaso, infatti, che uccide la Chimera, mostro composito (leone, serpente e capra) spirante fiamme, sorprendendola con un attacco aereo reso possibile dalla elevazione della sua cavalcatura. Ancora grazie all’aiuto di Pegaso stermina poi le Amazzoni e vince i Solimi3. In seguito a queste vittorie Bellerofonte ottiene in sposa la figlia del re e metà del regno di Licia. Ma Bellerofonte non si accontenta e, ormai accecato dall’ambizione, ambisce a salire all’Olimpo per partecipare alle riunioni divine: Pegaso, a quel punto, lo disarciona. E mentre Bellerofonte vaga come un derelitto nella pianura Aleia (“Erratica”), il suo cavallo viene accolto dagli dèi olimpici: nutrito alla greppia di Zeus, Pegaso è incaricato di trasportarne le armi caratteristiche – il lampo e il tuono – per il tempo a venire.

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L'ariete dal vello d'oro

Nefele (la “Nuvola”, probabilmente un’Oceanina) ha due figli da Atamante, re di Beozia: si chiamano Frisso ed Elle. Ma Atamante sposa in seguito una mortale, Ino(o Demodice) dalla quale pure ha due figli. Costei vuole eliminare la prima discendenza del marito e minaccia Frisso: secondo alcuni cercando di sedurlo (Pindaro), secondo altri invece provocando una carestia e inducendo Atamante a credere che essa si sarebbe risolta solo se avesse sacrificato Frisso a Zeus. Per sottrarre i figli alla pericolosa situazione, Nephele manda a prenderli un ariete prodigioso che aveva avuto in dono da Hermes. L’animale era ricoperto da un fulgido manto di lana d’oro – era perciò chiamato Chrysomallos –, poteva volare e soprattutto parlare come un umano. Aveva perciò avvisato i due ragazzi dei pericoli che incombevano su di loro (Ecateo). Come si capisce, non si trattava di un montone qualunque e la sua origine era infatti semi-divina: era figlio di Poseidone (Nettuno) e della bellissima Teofane1. Lo avevano concepito quando il dio aveva cercato di sottrarre la ragazza ai suoi molti pretendenti, trasferendola nell’isola di Crumissa e mutando la forma di lei e di tutti gli abitanti dell’isola in quella di un gregge di pecore. Anche in quella forma Theofane spiccava comunque per bellezza. Ma i pretendenti l’avevano inseguita fin lì: sbarcati e non vedendo nessun essere umano, avevano iniziato a uccidere le pecore per farne banchetto. Vista la situazione, Nettuno trasformò quelli in lupi, mentre presa egli stesso le sembianze di un ariete, si accoppiò con Theofane. Da questa unione era nato, appunto, l’ariete dal vello d’oro. Come questo fosse finito nelle mani di Hermes e perché il dio l’avesse donato a Nefele non è dato sapere, ma è chiaro che si trattava di una bestia di rango divino. Frisso ed Elle salgono quindi in groppa all’ariete e con questo iniziano a sorvolare terre e mari. Giunti sopra le acque che separano il continente europeo da quello asiatico, Elle scivola dalla cavalcatura, precipita in mare e vi muore: da quel momento quel luogo sarà chiamato Ellespontos (il “Mare di Elle”). Frisso invece giunge sano e salvo in Colchide, dove decide di sacrificare l’ariete ad Ares (o a Zeus/ Il motivo di questa uccisione non è precisato dalle fonti. In alcuni racconti è Nefele stessa che fa promettere al figlio, una volta tratto in salvo, il sacrificio dell’animale (Igino); un'altra versione vuole che sia Hermes (precedente "proprietario" dell’animale) a suggerire a Frisso di sacrificare la bestia; oppure sarebbe stato l’animale stesso, una volta compiuta la missione di salvataggio, a rivolgere a Frisso parole umane e a suggerirgli di sacrificarlo a Zeus Fyxios (“dei fuggitivi”)2. Si sarebbe trattato insomma di qualche cosa di più che un semplice assenso della vittima, come il rito classico normalmente prevedeva dall’animale condotto all’altare: Crisomallo, già un prodigio di per sé, avrebbe organizzato uno stupefacente auto-sacrificio. Il suo manto splendente, rimosso dal cadavere, viene appeso a un albero nel bosco sacro di Ares e custodito da un enorme drakon (e lì rimarrà fino a quando Giasone non riuscirà a prenderlo, con l’aiuto di Medea). Altri dicono che il montone non fu sacrificato: si sarebbe volontariamente spogliato del proprio manto per donarlo a Frisso e, così privo del vello, sarebbe volato in cielo per diventare la costellazione dell’Ariete – per questo tale costellazione sarebbe poco luminosa (Eratostene). Diversamente, sarebbe stata Nefele a fissare l’immagine dell’Ariete prodigioso nel cielo dopo la sua morte per mano di Frisso3.

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Nascita del minotauro

Mentre Minosse, aspirante al trono di Creta, offriva un sacrificio a Poseidone, per dimostrare ai propri concittadini il proprio legame speciale con il dio gli chiese di far emergere un toro dal mare e promise che glielo avrebbe sacrificato. Poseidone fece allora apparire per lui un toro bellissimo, ma Minosse mandò il toro tra le sue mandrie e ne sacrificò un altro. Riuscì così a diventare re di Creta e fu il primo ad avere il dominio sul mare (la “talassocrazia”), ma il dio, adirato con lui, rese furioso l’animale e fece in modo che Pasifae se ne invaghisse. Innamorata del toro, la regina si fa aiutare dall’ingegnoso Dedalo, fuggito da Atene a causa di un omicidio. Dedalo costruì una vacca di legno e la pose su delle ruote, dentro la face cava, le cucì addosso la pelle di una vacca che aveva scuoiato, la collocò nel prato dove il toro era solito pascolare e vi fece salire Pasifae. Sopraggiunse il toro che si unì a lei come se fosse realmente una vacca. Dopo questa unione, la regina generò Asterio, detto Minotauro, che aveva la testa di toro e il corpo di uomo. In seguito a certi oracoli, Minosse lo rinchiuse, ben custodito, nel celebre labirinto, un edificio costruito da Dedalo che, con i suoi tortuosi corridoi, impediva di trovare l’uscita1.

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Castore e Polluce contro Ida e Linceo

Il destino dei Dioscuri si intreccia con quello di Ida e Linceo, figli di Afareo cugino di Tindaro. Venuti a contesa per il bestiame, i Dioscuri riescono a rapire la mandria dei cugini e fuggono. Linceo però, dotato di vista acutissima, scorge Castore acquattato nel cavo di un albero di quercia; ne rivela quindi la posizione a Ida, che lo trafigge mortalmente con una lancia. Polideuce si slancia a inseguirli fino a Terapne, dove i due si erano rifugiati presso la tomba di Afareo. Lì Polideuce uccide Linceo e, quando Ida cerca di colpirlo con la pesante pietra tombale del padre, è lo stesso Zeus a difendere il figlio e a incenerire Ida con la folgore. Polideuce torna di corsa da Castore, ma lo trova in fin di vita; scongiura allora il padre Zeus di farlo morire con il fratello gemello, poiché se non può essere vissuta insieme a Castore la vita gli appare solo come sofferenza. Zeus allora lo pone davanti a una scelta: o vivere senza Castore da immortale nell’Olimpo o condividere lo stesso destino del gemello, un giorno in cielo e un giorno negli inferi. Polideuce senza esitazione sceglie il destino di condivisione con il fratello. Da allora i Dioscuri trascorrono un giorno presso Zeus, nell’Olimpo, e un giorno nell’oscurità, sotto terra1. Si narra ancora che dopo morti i due divennero stelle luminose, la costellazione dei Gemelli2. Dal cielo essi vengono in soccorso ai naviganti che, colpiti da una tempesta, li invocano promettendo loro un sacrificio di bianchi agnelli3.

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Meleagro contro gli zii materni

Meleagro è figlio di Altea e Oineo, re di Calidone in Etolia. Dopo un abbondante raccolto Oineo offre un sacrificio a tutti gli dèi, ma si dimentica di Artemide; la dea allora manda come punizione un terribile cinghiale che inizia a distruggere il territorio di Oineo. È Meleagro a ucciderlo dopo aver organizzato una battuta di caccia con gli eroi più valorosi di tutta la Grecia, cui prendono parte anche gli zii materni di Meleagro, i Cureti. Anche Atalanta, straordinaria cacciatrice di cui Meleagro è innamorato, interviene nella caccia e colpisce il cinghiale sulla schiena con una freccia. Meleagro dà al cinghiale il colpo di grazia e a lui sarebbero spettate di diritto la testa e la pelle dell’animale, come parte d’onore dovuta all’uccisore. Egli però scuoia l’animale e dona la pelle alla sua amata Atalanta; allora gli zii della madre – o uno solo di essi – contestano questa attribuzione e sottraggono ad Atalanta la pelle del cinghiale. Una lotta violenta sorge tra Etoli e Cureti; Meleagro, preso dall’ira, uccide gli zii materni e restituisce la pelle del cinghiale ad Atalanta. La madre Altea maledice il figlio e invoca Ade e Persefone affinché gli diano la morte1.

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Servio Tullio nasce dal focolare

All’epoca di Tarquinio Prisco, nella reggia di Roma vive Ocresia, una schiava originaria di Corniculum e qui catturata dopo la conquista della città. In occasione di alcuni riti sacri, a Ocresia viene ordinato di versare del vino sul focolare acceso; la schiava si accorge allora che fra le ceneri è comparso un fallo. La regina Tanaquilla comprende immediatamente che quel fenomeno ha origine soprannaturale e ordina all’ancella di sedere presso il focolare; Ocresia concepisce così il futuro Servio Tullio, il cui padre è dunque lo stesso dio del fuoco Vulcano. Di questa circostanza si ha conferma di lì a non molto, quando il capo di Servio ancora bambino viene circondato da una corona di fiamma1. In altre varianti del racconto, il fallo comparso tra le braci rimanda non a Vulcano, ma al Lare, divinità tutelare della famiglia che nell’area del focolare riceveva il proprio culto. Per questo fu Servio a istituire i Compitalia, le feste celebrate nei primi giorni dell’anno in onore dei Lari dei crocicchi (compita) e officiate dagli abitanti del medesimo vicinato2. Durante i Compitalia vigeva tra l’altro una carnevalesca inversione dei ruoli fra schiavi e padroni; proprio ai Lari, sia quelli domestici che quelli dei crocicchi, usavano del resto sacrificare gli schiavi, per altri versi esclusi dalle pratiche religiose della casa e della città.

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