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Miti

Morte di Niobe

Niobe, madre di dodici figli, sei maschi e sei femmine, osa mettersi a paragone con Latona, che ha generato soltanto Apollo e Artemide. È un oltraggio molto grave contro la poco prolifica dea e il castigo non tarda ad arrivare: le due divinità assalgono l’eroina armate entrambe del terribile arco; Apollo uccide i figli maschi di Niobe, Artemide le femmine1.

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Suicidio di Erigone

Dioniso ha insegnato a Icario la coltivazione della vite. Quando l’uomo viene ucciso da un gruppo di contadini ubriachi, sua figlia Erigone si appende a un albero collocato nel luogo dove è seppellito il padre. Insorge allora un’epidemia di impiccagioni femminili e l’oracolo di Delfi prescrive di punire gli assassini di Icario e di istituire la festa dell’Aiora, durante la quale le giovani Ateniesi si dondolano su altalene appese ai rami degli alberi1.

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Decapitazioni

Il troiano Dolone, sorpreso da Odisseo e Diomede durante una sortita notturna nel campo acheo, supplica di essere risparmiato, ma il Tidide con la spada gli tronca la testa, che rotola nella polvere1. Eveno, figlio di Ares, sfida in una corsa col carro gli aspiranti alla mano della figlia Marpessa; quando vince nella gara, uccide gli sconfitti che hanno osato gareggiare con lui ed espone le loro teste sul muro della sua casa, per terrorizzare i futuri pretendenti2. Un analogo costume è attribuito a Enomao, re di Pisa nell'Elide, che intende costruire un tempio con le teste dei pretendenti della figlia3.

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Mutilazione proci

A Itaca, nella sala del palazzo, Odisseo stermina i pretendenti che per lungo tempo si sono insediati nella sua casa. Si deve decidere la sorte da riservare al capraio Melanzio, il quale ha appena sottratto dalle stanze scudi, lance ed elmi per armare i proci. Eumeo e Filezio, istruiti da Odisseo, trascinano l’uomo nel magazzino e qui lo torturano dopo averlo appeso con una fune a una trave del tetto. I due quindi conducono fuori il corpo senza vita del traditore e col bronzo spietato gli tagliano via naso e orecchie, strappano i genitali – gettati in pasto ai cani –, infine recidono mani e piedi1.

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Mutilazione Agamennone

Quando Agamennone torna da Troia, sua moglie Clitennestra, che è diventata l’amante di Egisto, lo accoglie a casa, ma già medita in cuore un piano funesto: mentre l’ignaro consorte è privo di difese, la donna lo colpisce mortalmente e lo disonora come un nemico, sottoponendolo all’orrida pratica del "mascalismo"1.

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Mutilazione Apsirto

Dalla Colchide invece ritorna Giasone, il capo degli Argonauti, con Medea al seguito, che lo ha aiutato nella conquista del famoso vello. Eeta, il padre della maga, manda all’inseguimento un contingente di Colchi guidati dal figlio Apsirto. A un certo punto i Colchi occupano tutte le isole illiriche, mentre i Greci si stabiliscono in una delle due Brigie, sacre ad Artemide. Medea, fingendo di essere stata costretta alla fuga e di voler tornare a casa, nella notte attira il fratello presso il tempio artemideo, dove Giasone gli tende un’imboscata: l’argonauta uccide Apsirto, mozza le estremità del cadavere, poi lecca per tre volte il sangue e lo sputa, infine nasconde sotto terra il morto1.

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Carite e Trasillo

Fra i pretendenti della bellissima Carite vi è Trasillo, un giovane di nobile famiglia, ma gran frequentatore di osterie e di donnacce. Rifiutato a causa dei suoi costumi riprovevoli, il giovane pensa di vendicarsi e durante una battuta di caccia uccide lo sposo di Carite, dopo aver architettato il delitto affinché sembri un incidente. Un giorno però, avvertita in sogno dall’anima dello sfortunato sposo, Carite decide di punire l’infame assassino: lo invita a presentarsi furtivamente di notte nella sua stanza e gli fa bere un potente sonnifero. Poi, con maschia ferocia si lancia contro l’assassino sepolto dal sonno e trafigge gli occhi di Trasillo con uno spillone. Infine, afferra la spada dello sposo e sul suo sepolcro si squarcia il petto1.

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Castore e Polluce tra mortalità e immortalità

Castore e Polluce avevano razziato i buoi dei loro cugini Ida e Linceo, ma furono avvistati da Linceo stesso, che aveva una vista acutissima. Ida trafisse Castore con una lancia, perciò Polluce accorse immediatamente in preda all’ira. Ida e Linceo cercarono di invano di uccidere Polluce scagliando contro di lui una grossa pietra; ma questi ebbe la meglio su Linceo, mentre Zeus lanciò il suo fulmine contro Ida. A quel punto Polluce si diresse verso il fratello, che era a terra in punto di morte, e pregò il padre Zeus di farlo morire con lui, perché non vi poteva più essere gloria (tima) per un mortale privato dei suoi cari (philon). Ma Zeus gli rispose che ciò non era possibile, perché Polluce era in realtà figlio suo, e la sua sorte sarebbe stata quella di vivere con gli dèi nell’Olimpo; Castore era invece stato concepito dopo, da un seme mortale (sperma thnaton), ed era quindi destinato a morire. L’unica possibilità era che Polluce dividesse la sua sorte con lui, passando metà della vita sotto terra, e l’altra metà in cielo, cosa che l’eroe non esitò a fare. Zeus riaprì allora gli occhi di Castore.1.

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Orazi e Curiazi

Tullo Ostilio e il re di Alba Longa, Mezio Fufezio, decidono di risolvere il conflitto fra le loro città facendo scontrare un numero circoscritto di uomini. Come per un segno del fato, a Roma e ad Alba sono presenti due coppie di trigemini e Fufezio propone di scegliere tali giovani quali campioni dei rispettivi eserciti. I gemelli sono fra loro cugini, in quanto figli di due sorelle, le Sicinie, a loro volta gemelle fra loro e sposate dal loro padre l’una al romano Orazio, l’altra all’albano Curiazio. Inoltre, i sei ragazzi sono cresciuti a stretto contatto, al punto da chiamarsi tra loro “fratelli”, e la sorella degli Orazi è promessa sposa a un Curiazio. Nonostante ciò, i campioni delle due città sono disponibili ad affrontare il duello. Il combattimento ha luogo alla presenza dei rispettivi eserciti; dopo che due degli Orazi sono già caduti, il fratello superstite riesce a uccidere tutti i nemici, affrontandoli uno alla volta, e torna a Roma carico delle spoglie sottratte ai Curiazi. In mezzo alla folla che gli corre incontro c’è anche la sorella, che riconosce fra le spoglie il mantello da lei tessuto per il promesso sposo; Orazia scoppia allora in lacrime, rimproverando al fratello di aver ucciso degli stretti congiunti, ai quali si rivolgeva con l’appellativo di “fratelli”. Per tutta risposta, Orazio trafigge con la spada la ragazza, colpevole di piangere un nemico e di avergli rifiutato il "bacio" rituale che deve a suo fratello. Ha luogo allora un processo, nel corso del quale il giovane Orazio si appella al popolo e viene assolto, nonostante la gravità del suo crimine, in nome dell’eroismo mostrato in guerra. Tuttavia, per placare l’ira degli dèi, custodi dei legami parentali, vengono consacrati due altari, uno dedicato a Giunone Sororia, protettrice delle sorelle, e uno a Giano Curiazio. Il giovane Orazio, poi, viene fatto passare in segno di espiazione sotto un giogo, il Tigillum sororium o “Trave della sorella”, ancora visibile nel tardo I secolo a.C.; nella stessa area sorgeva anche la colonna eretta per conservare le spoglie dei Curiazi, la cosiddetta pila Horatia12.

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Romolo e Remo

Alla morte di Proca, i suoi due figli si contendono il trono di Alba Longa e Numitore, erede designato, viene spodestato dall’ambizioso fratello Amulio. Questi, temendo che la nascita di eredi maschi del fratello metta in pericolo il suo regno, fa consacrare Rea Silvia, figlia di Numitore, come vergine Vestale. La donna tuttavia mette alla luce due gemelli, attribuendone la paternità a Marte; in preda all’ira, Amulio fa allora imprigionare Rea Silvia e abbandona i due neonati nelle acque del Tevere. Provvidenzialmente, la cesta che contiene i gemelli viene deposta dalle acque ai piedi di un fico, sul terreno asciutto, e qui una lupa si avvicina ai bambini porgendo loro le sue mammelle gonfie di latte. Il pastore Faustolo, che assiste alla scena, decide di raccogliere i gemelli e di allevarli insieme alla moglie Larenzia. I fratelli crescono forti e gagliardi nelle campagne del Lazio finché un giorno uno di loro, Remo, viene catturato e consegnato al re Amulio, con l’accusa di aver condotto razzie nel territorio di Alba. Numitore riconosce allora il nipote e gli rivela la sua origine; altrettanto fa il pastore Faustolo con Romolo. I due gemelli, insieme ad alcuni compagni, attaccano la reggia, uccidono il tiranno e restituiscono il trono al nonno Numitore. A questo punto, i gemelli scelgono di andare a fondare una nuova città nei luoghi della loro infanzia. I contrasti, però, cominciano già con la scelta del nome da assegnare alla città, e la brama di potere prende facilmente il sopravvento. Dopo aver deciso di dirimere la controversia rimettendo agli dèi la scelta del fondatore, Romolo e Remo si posizionano rispettivamente sul Palatino e sull’Aventino per osservare i segni celesti. A Remo appaiono subito sei avvoltoi, ma proprio mentre tale annuncio viene portato a Romolo, questi scorge un numero doppio di uccelli. Ciascun gruppo di sostenitori acclama il proprio re, appellandosi al primato temporale o alla superiorità numerica; nella contesa che segue, Remo cade in battaglia. Secondo una diversa versione, è Romolo stesso a trucidare il fratello, reo di aver scavalcato le nuove mura in segno di scherno. In ogni caso, la città fu fondata e il gemello vincitore le diede il proprio nome1.

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Tarpea tradisce i Romani ed è uccisa dai Sabini

Lo sdegno dovuto al ratto delle loro donne induce gli abitanti di tre città della Sabina (Cenina, Crustumerio e Antemne) a imbracciare le armi contro Roma. Dopo che le loro spedizioni si rivelano fallimentari, un più vasto conflitto è scatenato da Tito Tazio, re della città di Curi e figura egemone presso tutti i Sabini. A differenza dei suoi predecessori, Tazio ricorre a un piano lucido, spinto fino all’inganno. La guerra ha inizio con un curioso colpo di mano: Tarpea, la giovane figlia del custode del Campidoglio, Spurio Tarpeo, si reca a prendere dell’acqua per una cerimonia sacra e in questa occasione si lascia corrompere dall’oro del nemico. La donna consente ai Sabini di impossessarsi della rocca, ma una volta ottenuto l’ambito accesso, questi la uccidono brutalmente, lanciandole addosso i loro pesanti scudi fino a soffocarla: prima di spalancare proditoriamente le porte della rocca, Tarpea aveva infatti chiesto come contraccambio ciò che i Sabini portavano al braccio sinistro. La giovane avrebbe inteso riferirsi in questo modo ai bracciali d’oro e agli anelli preziosi che i Sabini usavano indossare; ma poiché anche gli scudi venivano tradizionalmente sostenuti col braccio sinistro, la richiesta di Tarpea poté agevolmente prestarsi a un macabro e deliberato malinteso. Non mancano peraltro versioni del racconto secondo cui, lungi dall’essere una traditrice, Tarpea avrebbe tentato di far cadere in trappola i nemici in forza del suo ambiguo riferimento alla mano sinistra: ella avrebbe realmente mirato alla consegna degli scudi dopo l’ingresso in Campidoglio, fidando nell’imminente arrivo delle truppe romane sui Sabini disarmati, ma Tazio e i suoi avrebbero colto l’intenzione fraudolenta e optato per un sanguinario “contro-dono”12.

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Integrazione tra Romani e Sabini

Una volta conquistato il Campidoglio, i Sabini devono far fronte al rinnovato impeto delle truppe romane, ansiose di vendetta. Dalla mischia emergono due valorose figure: Mezio Curzio per i Sabini e Osto Ostilio per i Romani. Quest’ultimo però cade sul campo, gettando i compagni nello sconforto; Romolo supplica allora Giove di arrestare la fuga e salvare la città, promettendo in cambio la costruzione di un tempio al dio come “Statore”. I Romani riprendono a combattere e riescono a disarcionare dal cavallo Mezio Curzio; questi precipita quindi in una palude, nell’area che più tardi sarebbe stata occupata dal Foro. A ricordo dell’evento, tale parte del Foro sarà denominata Lacus Curtius. Sostenuto dalle acclamazioni dei Sabini, comunque, Mezio si tira fuori dall’acquitrino e la battaglia riprende nella valle fra Campidoglio e Palatino. Sono le donne sabine che a questo punto imprimono una svolta alle vicende, gettandosi in mezzo alle schiere e supplicando entrambe le parti di porre termine a quella che è divenuta ormai una guerra civile. Gli uomini in lotta, commossi dall’accorato appello, acconsentono alla pace e decidono di fondere le due città. I Sabini si trasferiscono a Roma, dove Tazio diviene re al pari di Romolo. La diarchia così inaugurata prosegue all’insegna della piena concordia, finché un sinistro incidente non spezza la vita del coreggente sabino. Alcuni parenti di Tazio usano violenza contro gli ambasciatori dei Laurentini, e allorché questi domandano giustizia, Tazio non ha la forza di opporsi alle suppliche dei suoi. Perciò, quando il re sabino si reca a Lavinio allo scopo di celebrare un sacrificio, i Laurentini si vendicano uccidendolo12.

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Morte di Tito Tazio: empietà e contaminazione

È infatti a Lavinio che si consuma un altro gesto di empietà e violenza, teso a pareggiare il debito di sangue: Tazio è assassinato mentre officia un sacrificio, in un momento in cui la prassi religiosa esige il massimo della purezza e dello scrupolo. Accade invece che il re sabino muoia «trafitto presso gli altari dai coltelli sacrificali e dagli spiedi utilizzati per trapassare i buoi»1. Il sangue degli animali consacrati, offerto per la città e per gli dèi, è orribilmente mescolato a quello del celebrante, al culmine di una faida fra popoli consanguinei. Al delitto fanno seguito una serie di eventi infausti: un’inattesa pestilenza si abbatte sugli abitanti di Roma e Lavinio, la terra e gli animali domestici divengono sterili e una pioggia di sangue si rovescia sui luoghi. Né i Romani né i Laurentini hanno dubbi sul fatto che l’ira divina sia stata provocata dai due atti di empietà rimasti inespiati: l’omicidio degli ambasciatori e il linciaggio di Tazio. Dopo la morte di quest’ultimo, infatti, Romolo si era rifiutato di punire i colpevoli, asserendo che il primo fatto di sangue era stato cancellato dal secondo. Nessun effetto sortisce comunque la sollecitudine religiosa con cui Romolo dà sepoltura al collega sull’Aventino, istituendo presso la sua tomba un culto funebre che prevede l’offerta annuale di libagioni a spese della comunità, identiche a quelle che si versavano sul Campidoglio per l’ambigua eroina Tarpea. Il re deve dunque rassegnarsi a fare piena giustizia: vengono puniti sia gli aggressori degli ambasciatori laurentini sia gli assassini di Tazio e le due città sono purificate attraverso apposite cerimonie lustrali. Anche questi riti entrarono nell’uso tradizionale ed ebbero come sfondo, nei secoli successivi, una non meglio precisata Porta Ferentina2.

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Altalene rituali: miti eziologici di impiccagione e feste femminili

Erigone è la fanciulla figlia dell’ateniese Icario, ucciso da pastori ubriachi. Alla vista del padre morto Erigone si impicca ai rami del pino sotto il quale era stato sepolto il cadavere, e prega che altrettanto facciano le fanciulle Ateniesi fino a che il padre non sia vendicato. E infatti molte fanciulle di Atene vengono trovate impiccate ai rami di pino. Gli Ateniesi allora puniscono i pastori assassini e istituiscono in onore di Erigone, trasformata nella costellazione della Vergine, una festa in cui si appendono manichini ai rami degli alberi1. Carila è una fanciulla di Delfi, che durante una carestia si reca dal re a chiedere un po’di grano. Ma il re la respinge. Carila, umiliata, si impicca e, da quel momento, la carestia aumenta. L’oracolo allora impone l’istituzione di una festa, da tenere ogni nove anni, in cui viene distribuito del grano, e viene sospeso ad un albero un manichino di nome Carila, con un laccio al collo, poi seppellito nel luogo del suicidio della fanciulla2.

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Vendetta di Clitemestra su Agamennone

Clitennestra, sorella di Elena, sposa l’Atride Agamennone, duce della spedizione di Troia. Il primo marito e il figlio avuto da lui erano stati uccisi proprio da Agamennone, che ad Aulide aveva sacrificato la propria figlia Ifigenia per consentire la navigazione per Troia1. Negli anni di lontananza del marito, dopo avere dapprima fatto resistenza, si lascia sedurre da Egisto, figlio di Tieste fratello di Atreo. Una vicenda torbida segna la vita di Egisto, nato dal legame incestuoso di Tieste con la figlia Pelopia, perché si vendicasse di Atreo che aveva imbandito al fratello Tieste le carni dei suoi figli. A quest’uomo Clitennestra cede, consentendogli per di più di insediarsi nel palazzo di Micene e regnare con lei, finché, tornato Agamennone dalla guerra, gli tende una trappola di morte e lo uccide. Ma implacabile arriva la vendetta del figlio Oreste, che per ordine di Apollo uccide la madre. (Eschilo, Agam.; Cho.) .

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Le Danaidi e il rifiuto del matrimonio

Le Danaidi sono le cinquanta figlie del re di Libia Danao. Fuggono dalla loro terra assieme al padre per sfuggire alle nozze con i loro cinquanta cugini, figli del fratello del padre, Egitto. Si rifugiano quindi ad Argo dove ottengono l’ospitalità e la protezione del re Pelasgo. Il matrimonio si configura infatti per loro come un incesto, trattandosi di cugini consanguinei, per di più al di fuori della norma sociale che richiede il consenso del padre. Ma l’aspetto più marcato nelle fonti è che le nozze sono vissute da loro come un insopportabile atto di violenza e di predazione, che esse, come colombe ghermite da sparvieri, rischiano di subire dai maschi assalitori. Alla fine il padre sembra acconsentire alle nozze, che dunque vengono celebrate, ma egli stesso arma la mano delle figlie dando loro la spada per assassinare i mariti. La prima notte di nozze si trasforma quindi in una strage, in quanto le fanciulle uccidono ciascuna il loro marito, tranne una, Ipermestra, che risparmia Linceo, del quale si era innamorata perché aveva rispettato la sua verginità; il suo è l’unico letto nuziale che non si macchia di sangue, né del sangue della deflorazione, né di quello dello sgozzamento. Per punizione del loro crimine, nell’Ade le fanciulle sono condannate a riempire in eterno di acqua un vaso bucato1.

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Comportamento scellerato di Tullia

Tullia agisce in un primo tempo all’interno della casa, dove però tiene un comportamento del tutto inaccettabile (si incontra di nascosto con il marito della sorella, con il quale decide, e poi compie, gli omicidi della sorella e del marito), poi fuori dell’ambiente domestico. In particolare, subito dopo l’assassinio di suo padre Servio Tullio, Tullia si dà a una fitta sequenza di trasgressioni. Prima si reca nel Foro sul carpentum, un tipo di carro chiuso impiegato dalle matrone per non rinunciare alla necessaria riservatezza, ma del quale la donna farà un pessimo uso. Inoltre, una volta nel Foro Tullia si mescola alla folla degli uomini, rivolgendo la parola al marito in una tale sconveniente situazione, al punto che lo stesso Tarquinio si vede costretto ad allontanarla. Ed è durante il tragitto di ritorno che Tullia passa con il suo carro sul corpo del padre, che lì giaceva dopo che suo marito l’aveva fatto uccidere, nella strada che proprio da questo episodio prenderà il nome di Vicus Sceleratus. Tullia porta così fino ai Penati propri e del marito parte del sangue proveniente da quella terribile uccisione, del quale è imbrattata e schizzata lei medesima: e a questa sistematica infrazione dei doveri parentali non potrà che seguire l’ira dei Penati stessi. Tullia quindi non solo non sa limitarsi a stare nello spazio che le compete, ma al contrario fa dello spazio – di ogni spazio – l’uso più trasgressivo possibile1.

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Morte di Virginia

Quanto al mito di Virginia, la ragazza uccisa dal padre per sottrarla alle voglie colpevoli del decemviro Appio Claudio, il quale ha ordito un inganno per impadronirsi della vergine, in uno dei passaggi del racconto la vediamo muoversi nel Foro, ma è significativo che le fonti sentano il bisogno di motivare tale presenza: c’erano lì degli spazi adibiti a scuole. Inoltre, la ragazza è accompagnata dalla nutrice; e un po’più avanti il fidanzato Icilio, quando apostrofa il decemviro, afferma tra l’altro: «La fidanzata di Icilio non rimarrà fuori della casa di suo padre»1. Quando poi, prima del processo2, Virginio porta con sé nel Foro la figlia, questa è accompagnata da un certo numero di matrone e da molti difensori; di lì a poco però quella folla arretra, intimidita dall’atteggiamento violento di Appio Claudio, e la vergine resta in piedi, preda abbandonata all’oltraggio. È a questo punto che il padre, vista svanire ogni speranza di salvezza, chiede di portare un momento con sé la figlia verso il tempio della dea Cloacina e lì la uccide, per garantirne la libertà nell’unico modo in cui era possibile3. In quella situazione non solo le donne che le erano vicine, ma neppure i concittadini potevano assicurarle che la pudicizia di Virginia fosse rispettata, e quindi la ragazza non poteva più aspirare a ricoprire il ruolo che il suo statuto di vergine prescriveva e che aveva il suo preciso posto nella vita della comunità .

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Sospetto di adulterio

Un tale che amava molto sua moglie e stava predisponendo per il figlio la toga virile fu preso in disparte da un liberto, che sperava di subentrare come suo erede più prossimo. Questi, dopo avergli mentito sul conto del figlio e su quello della moglie, aggiunse una calunnia che sarebbe stata motivo di profondo dolore per un uomo innamorato, e cioè che il buon nome della sua casa era contaminato da un adulterio. L’uomo escogitò allora un modo per verificare le parole del liberto: dopo qualche giorno, finse di andare fuori città ma al calar della notte tornò indietro e si introdusse nella camera coniugale. Al buio, toccò una testa d’uomo dai capelli corti e senza attendere oltre trafisse quello che credeva l’amante di sua moglie. Non si trattava, però, di un adultero, ma del suo stesso figlio, che dormiva accanto alla madre. La donna, infatti, gli aveva ordinato di passare la notte con lei per sorvegliare con più attenzione l’età adulta che il ragazzo aveva appena raggiunto. Scoperto il tragico errore, il padre non regge al cordoglio e quella stessa spada che aveva impugnato per l’inganno del servo la rivolge contro sé stesso1.

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Appio Claudio attenta alla verginità di Virginia

Il decemviro Appio Claudio è preso dal desiderio di violare una vergine plebea di straordinaria bellezza, figlia di Lucio Virginio. Appio tenta dapprima di sedurre la ragazza con l’offerta di un compenso, ma, ostacolato dal pudore di lei, sceglie di ricorrere alla violenza. Incarica un suo cliente di dichiarare che la vergine era figlia di una sua schiava e dunque di sua proprietà. Quello obbedisce, ma dal momento che una gran folla accorre per impedire quell’ingiustizia, il cliente cita la ragazza in giudizio presso il tribunale di Appio, il quale acconsente a che l’uomo la conduca a casa sua. Ma Icilio, cui la giovane era promessa, protesta e ottiene che sia mandato a chiamare il padre di lei, impegnato in una campagna di guerra. Intanto Appio stabilisce che Virginia sia data in schiava a chi la rivendica. Virginio chiede allora un momento perché, in disparte con la figlia, possa interrogare la nutrice sulla sua nascita. Conduce quindi la giovane nei pressi delle Botteghe nuove e, afferrato un coltello, le trafigge il petto. I Romani piansero il delitto di Appio, la funesta bellezza della fanciulla e l’ineluttabile decisione paterna1.

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Tarpea si fa corrompere dai nemici

Al tempo in cui il Campidoglio era sorvegliato da Spurio Tarpeio, i Sabini guidati da Tito Tazio entrarono a Roma. Fu la figlia del guardiano, Tarpea, a rendere possibile l’accesso ai nemici. La giovane vergine era uscita dalle mura per prendere l’acqua quando fu sorpresa da Tito Tazio. Tarpea guidò il nemico alla rocca, secondo alcune fonti con la promessa di ricevere in cambio i suoi gioielli d’oro1, secondo altre perché innamoratasi subitaneamente del re sabino2. In tutti i casi, la fanciulla morì, colpita dagli scudi dei nemici.

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Eracle e la veste avvelenata

Il giorno in cui Eracle salvò la sposa Deianira dalle insidie erotiche di Nesso, ferendolo a morte, innescò senza saperlo il principio della propria fine. Il Centauro diede alla donna i grumi del proprio sangue, facendoli passare per una pozione d’amore. Quando Eracle prese Iole come concubina, la sposa gelosa inviò al marito una veste intrisa del sangue velenoso. L’araldo Lica consegnò il dono nefasto ad Eracle ma la veste, una volta indossata, prese fuoco fino a corrodere il corpo dell’eroe. Eracle, prima di morire, afferrò Lica e lo scagliò verso il mare. Alcuni raccontano semplicemente che l’araldo morì schiantandosi contro un masso1; altri dicono che nel punto in cui cadde e sparì in mare nacque uno scoglio che fu chiamato Lica, altri ancora che a questo evento devono essere ricondotte le tre isole dette Licadi, antistanti le coste dell’Eubea2.

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Eracle contro Caco

In preda all’ira, Ercole strappa il masso che impediva l’accesso alla spelonca. Vistosi scoperto, e non avendo dove fuggire, Caco, sconvolto e atterrito, comincia a eruttare dalla sua bocca una fumata nera che avvolge tutto l’antro per cercare di sottrarsi allo sguardo dell’eroe. Ercole, preso dallo sdegno e in preda ad un furore omicida, attraversa la coltre di fumo e fiamme e acciuffa Caco per la gola, strangolandolo1.

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Edipo e Laio: l'esposizione, l'oracolo, il parricidio

Quando Giocasta partorisce, Laio fa prontamente esporre il bambino da un pastore, dopo avergli mutilato i piedi con punte di ferro1. L’uomo decide però di salvarlo affidandolo a un pastore di Corinto, che lo dona a sua volta alla coppia regale della città, Merope e Polibo, che non ha figli propri. Qui Edipo viene allevato fino al giorno in cui, nel corso di un banchetto, un compagno lo apostrofa ingiuriosamente come bastardo. Turbato da questa insinuazione, Edipo decide di cercare la verità recandosi a Delfi, dove riceve un responso ancora più sconvolgente: egli è destinato a divenire assassino del padre e sposo della madre. Edipo fugge allora il più lontano possibile da Corinto, ma finisce per incontrare il suo fato proprio quando si sente ormai al sicuro, sotto le spoglie di un vecchio re su un carro che gli nega il passo al crocicchio sulla strada tra Delfi e Tebe. Il vecchio infatti non è altri che Laio. Ostile e aggressivo verso il giovane sconosciuto, rifiuta di cedergli il passo e lo colpisce violentemente sulla testa con la sferza per i cavalli. Edipo allora è costretto a difendersi e uccide il vecchio con il suo bastone di viandante2.

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Odisseo e Telemaco progettano la strage dei proci

Odisseo prepara con Telemaco la strage dei Proci, gli domanda quanti e quali siano per poterli assalire insieme, loro due soltanto, con l’aiuto di Atena. Nell’ordire il piano Odisseo pretende dal figlio assoluta segretezza e chiede a Telemaco di precederlo a palazzo, dove egli arriverà come mendicante e dove il figlio dovrà sopportare che il padre venga umiliato senza reagire. A un cenno del suo capo toglierà le armi dalla sala dei banchetti, lasciando solo quelle per loro due1. Con l’aiuto di Atena il piano concertato tra padre e figlio andrà a segno2.

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Medea uccide i figli per vendetta

Nella sua nativa Colchide, Medea ha aiutato l’eroe Giasone giunto dalla Grecia alla conquista del vello d’oro. Follemente innamorata, Medea si è unita a lui, ha generato due figli e si è stabilita a Corinto. Dopo alcuni anni, però, l’idillio si interrompe bruscamente perché Giasone decide di sposare Glauce, figlia del re di Corinto Creonte, per assicurarsi il potere regale. Creonte intende esiliare Medea, di cui teme le arti magiche; la donna è fuori di sé e pazza di dolore reclama i diritti del letto e dell’eros e invoca vendetta. Il tradimento di Giasone annienta in Medea ogni amore per i figli: odia i bambini, li maledice e augura la rovina loro, del padre e di tutta la casa, desiderando essa stessa di morire e dissolversi. Dopo aver ucciso la nuova sposa di Giasone con doni avvelenati, Medea ha ancora un’ultima esitazione, quindi si risolve all’estrema vendetta e si fa assassina dei propri figli1.

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Omicidio delle Danaidi e sorte di Ipermestra

Danao finge di cedere e assegna a ogni Egizio una figlia, non prima però di aver loro dato un pugnale per uccidere i cugini nella prima notte di nozze. Tutte le Danaidi compiranno l’assassinio dei neosposi, con l’eccezione della sola Ipermestra1. A lei il suo sposo piace, e molto. Mossa dal desiderio di unirsi a lui, decide di lasciarlo vivere. Il padre allora la sottopone a giudizio e la stessa dea Afrodite scende per difenderla, proclamando il primato del desiderio amoroso che la Terra ha posto come legge cosmica quando si è unita al Cielo ed è stata da lui fecondata in forma di pioggia, generando così animali e piante2. Ipermestra e lo sposo Lirceo (o Linceo) diverranno così capostipiti di una stirpe di eroi, quali Perseo ed Eracle.

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Castore e Polluce contro Ida e Linceo

Il destino dei Dioscuri si intreccia con quello di Ida e Linceo, figli di Afareo cugino di Tindaro. Venuti a contesa per il bestiame, i Dioscuri riescono a rapire la mandria dei cugini e fuggono. Linceo però, dotato di vista acutissima, scorge Castore acquattato nel cavo di un albero di quercia; ne rivela quindi la posizione a Ida, che lo trafigge mortalmente con una lancia. Polideuce si slancia a inseguirli fino a Terapne, dove i due si erano rifugiati presso la tomba di Afareo. Lì Polideuce uccide Linceo e, quando Ida cerca di colpirlo con la pesante pietra tombale del padre, è lo stesso Zeus a difendere il figlio e a incenerire Ida con la folgore. Polideuce torna di corsa da Castore, ma lo trova in fin di vita; scongiura allora il padre Zeus di farlo morire con il fratello gemello, poiché se non può essere vissuta insieme a Castore la vita gli appare solo come sofferenza. Zeus allora lo pone davanti a una scelta: o vivere senza Castore da immortale nell’Olimpo o condividere lo stesso destino del gemello, un giorno in cielo e un giorno negli inferi. Polideuce senza esitazione sceglie il destino di condivisione con il fratello. Da allora i Dioscuri trascorrono un giorno presso Zeus, nell’Olimpo, e un giorno nell’oscurità, sotto terra1. Si narra ancora che dopo morti i due divennero stelle luminose, la costellazione dei Gemelli2. Dal cielo essi vengono in soccorso ai naviganti che, colpiti da una tempesta, li invocano promettendo loro un sacrificio di bianchi agnelli3.

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Euristeo, Atreo e il potere su Micene

Dopo la morte di Eracle i suoi figli organizzano una spedizione contro Euristeo, che non solo aveva sottoposto il padre alla schiavitù delle dodici fatiche, ma regnava anche su Micene usurpando una sovranità che sarebbe spettata a Eracle. Euristeo è figlio di Stenelo e di Nicippe, figlia di Pelope e Ippodamia. Prima di partire per la spedizione contro gli Eraclidi, egli affida il regno di Micene allo zio materno Atreo, fratello della madre Nicippe, che era stato bandito dal padre Pelope come punizione per l’uccisione del figlio Crisippo. Dopo l’uccisione di Euristeo da parte di Illo, Atreo e la sua stirpe restano a regnare su Micene1.

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Bruto partecipa alla fondazione della repubblica

Bruto è figlio di una sorella di Tarquinio il Superbo; questi gli uccide il padre e il fratello, ma Bruto riesce a sfuggire alla follia omicida del sovrano fingendosi sciocco ed entra persino in intimità con i figli del re, che lo considerano il proprio zimbello. Più tardi, Bruto vendica lo stupro commesso da Sesto Tarquinio, figlio del Superbo, sulla castissima Lucrezia guidando la rivolta che conduce all’abbattimento della monarchia, per diventare infine membro della prima coppia consolare che guida la neonata repubblica. Quando viene a sapere che una vasta trama, mirante a riportare Tarquinio sul trono di Roma, ha coinvolto anche i suoi figli Tito e Tiberio, Bruto ne dispone l’immediata messa a morte e assiste personalmente all’esecuzione dei due giovani; e mentre tutti i presenti cedono alla commozione, il solo console mantiene un’espressione imperturbabile1.

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Ostilità tra Numitore e Amulio

I due principi Numitore e Amulio sono entrambi figli del re Proca. Secondo la variante più diffusa del racconto, Numitore eredita il regno del padre e ne viene successivamente privato con la violenza da Amulio; questi consolida poi il suo potere provvedendo a eliminare o emarginare la discendenza sia maschile che femminile del fratello1.

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Le due Tullie, spose dei due Tarquini

Le due Tullie, figlie di Servio Tullio e di una Tarquinia, hanno sposato i due fratelli Lucio e Arrunte, che la tradizione romana considera a loro volta figli di Tarquinio Prisco, e dunque zii materni delle due Tullie, oppure nipoti del defunto sovrano, e dunque cugini delle Tullie stesse. I due matrimoni uniscono però partner dal temperamento opposto: la Tullia più ambiziosa e spregiudicata ha sposato il Tarquinio più mite e arrendevole, la Tullia più devota al padre e aliena dal delitto, al contrario, il Tarquinio deciso a rivendicare il trono appartenuto un tempo alla sua famiglia. Ben presto i due cognati più animosi, Lucio Tarquinio e Tullia Minore, diventano amanti e si sbarazzano con un duplice delitto dei rispettivi partner, quindi si sposano a loro volta e organizzano la liquidazione di Servio Tullio. Mentre Lucio si presenta in Senato ed espelle violentemente dalla curia l’anziano re, precipitandolo dalle scale e abbandonandolo sul selciato, dove invia poi dei sicari a finirlo, Tullia si imbatte nel cadavere del padre, che impedisce al suo cocchio di procedere, e non esita a calpestarlo con le ruote del carro. Del crimine resta traccia nella stessa toponomastica della città, giacché la via che Tullia stava percorrendo al momento di imbattersi nel corpo del padre venne ribattezzata Vicus Sceleratus1.

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