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Miti

Le lacrime di Evandro

Evandro era celebre per entrambi i genitori, ma soprattutto per il sangue della divina madre, Carmenta, che dava responsi veritieri. Costei aveva profetizzato al figlio una serie di vicissitudini che puntualmente si verificavano: il giovane, infatti, venne esiliato insieme con lei e dovette lasciare la sua patria, l’Arcadia. Quando seppe del bando, addolorato, scoppiò in lacrime. A lui che piangeva la madre disse: «Ti prego, smetti di piangere. Devi sopportare virilmente la sorte che ti è data. Com’era previsto dai fati, non sei stato scacciato per tua colpa o per un errore commesso, ma per l’insondabile collera di un dio. Dunque, non dolerti come se fossi il primo a sopportare un simile fato. Per chi è fermo d’animo, ogni terra è patria. La tempesta feroce non infuria tutto l’anno, e anche per te, credimi, verrà la primavera». Incoraggiato da quelle parole, Evandro partì e di lì a poco giunse in Italia1.

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Polinice contro Eteocle

Dal matrimonio incestuoso fra Edipo e Giocasta nascono due figlie, Antigone e Ismene, e due figli, Eteocle e Polinice. Dopo l’allontanamento di Edipo il regno di Tebe è retto da Creonte, ma ben presto tra i due fratelli si apre la lotta per il trono. Al netto delle diverse varianti del racconto, il mito racconta come Polinice raccogliesse ad Argo un esercito alleato, guidato da sette campioni, e attaccasse la sua città natale schierando per ognuna delle porte di Tebe un guerriero argivo. Eteocle a sua volta scelse un campione tebano per ogni porta; quando seppe che alla settima porta era schierato Polinice, decise di fronteggiare egli stesso il fratello. Fu così che Eteocle e Polinice si uccisero l’un l’altro in duello1.

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Euristeo, Atreo e il potere su Micene

Dopo la morte di Eracle i suoi figli organizzano una spedizione contro Euristeo, che non solo aveva sottoposto il padre alla schiavitù delle dodici fatiche, ma regnava anche su Micene usurpando una sovranità che sarebbe spettata a Eracle. Euristeo è figlio di Stenelo e di Nicippe, figlia di Pelope e Ippodamia. Prima di partire per la spedizione contro gli Eraclidi, egli affida il regno di Micene allo zio materno Atreo, fratello della madre Nicippe, che era stato bandito dal padre Pelope come punizione per l’uccisione del figlio Crisippo. Dopo l’uccisione di Euristeo da parte di Illo, Atreo e la sua stirpe restano a regnare su Micene1.

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Severità di Tito Manlio verso il figlio

La vicenda ha inizio quando Lucio Manlio, il dittatore del 363 a.C., viene denunciato dai tribuni della plebe, che gli rimproverano tra l’altro di aver imposto al figlio Tito una sorta di domicilio coatto in campagna. Alla vigilia del processo, però, proprio il giovane Tito si presenta a casa del tribuno che stava imbastendo la procedura contro il padre, quindi estrae un pugnale e costringe il magistrato a giurare che il processo a carico di Manlio non sarà celebrato. La vicenda fa rumore, ma la plebe si mostra indulgente verso il gesto di Tito, ammirando il fatto che la durezza del padre non lo avesse allontanato dalla devozione cui era tenuto nei suoi confronti1.

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Coriolano vive senza padre e senza agnati

Gneo Marcio si è guadagnato il proprio cognome dopo la conquista della città volsca di Corioli; nei conflitti tra patriziato e plebe assume una posizione filo-aristocratica, attirandosi l’ostilità dei tribuni della plebe e una convocazione a giudizio, cui Coriolano rifiuta di presentarsi, subendo per questo la condanna all’esilio. La sua vita si è svolta non solo senza il padre, morto quando Gneo era ancora un bambino, ma senza nessuno di quelli che i Romani chiamano agnati, i parenti in linea paterna: una condanna che egli infliggerà a sua volta ai propri figli, dai quali si congeda affermando di lasciarli orfani e soli e di affidarli alle sole cure delle donne di casa, in una sorta di perversa ripetizione della sorte della quale lui stesso era stato vittima1. La madre Veturia, recatasi presso il suo accampamento, riesce infine a distoglierlo dal porre l’assedio alla città, invocando i diritti di chi aveva portato in grembo e poi allevato il futuro traditore; quanto a Coriolano, sulla sua morte circolano versioni diverse, ma essa viene immaginata in ogni caso come disonorevole e infelice.

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Odio di Ascanio per il fratello

Alla morte dell’eroe, quando il regno di Lavinio passa nelle mani di Ascanio, la matrigna di quest’ultimo, Lavinia, lasciata gravida dal marito, teme per l’incolumità del nascituro e decide di allontanarsi dalla città; il bambino viene partorito dunque nelle selve e proprio per questo riceve il nome di Silvius, il “figlio del bosco”, che lascia poi in eredità ai suoi successori1. Una variante a tinte più forti vuole che la persecuzione da parte di Ascanio non fosse solo un timore, ma una spiacevole realtà, alla quale Lavinia si sottrasse abbandonando la città di Alba2. L’ostilità di Ascanio si spiega alla luce della tradizionale inimicizia fra matrigna e figliastro, ma dipende soprattutto da ragioni politiche, legate al timore per la nascita di un potenziale rivale al trono.

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Collatino cerca di salvare i nipoti

Collatino tenta ripetutamente di sottrarre al supplizio i figli delle sue sorelle: al momento di giudicare i congiurati il console esita, piange, supplica il collega di fargli grazia della vita dei suoi parenti e minaccia di fare appello alla propria autorità consolare per strapparli alla condanna. Il suo comportamento autorizza i peggiori sospetti di complicità o di acquiescenza verso la congiura e suscita un’opposizione unanime; a rivelarsi decisivo sarà però l’intervento di Spurio Lucrezio, suocero di Collatino, che invita quest’ultimo a fare un passo indietro e a lasciare spontaneamente la città. Una volta di più sono dunque i rapporti di parentela a giocare una parte decisiva nella logica del racconto: la sua posizione di suocero conferisce infatti a Spurio Lucrezio un’autorità analoga a quella paterna nei confronti di Collatino1.

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Zio paterno di Appio Claudio

Di fronte ai disordini generati dalla politica accentratrice di Appio Claudio e degli altri decemviri, i tradizionali nemici di Roma sono tornati all’attacco, accampandosi a poca distanza dalla città. Nella tumultuosa seduta del Senato chiamata a discutere la situazione, Appio accorda in primo luogo la parola allo zio paterno Gaio Claudio; sennonché, lungi dal difendere il triumviro, Gaio imbastisce una lunga requisitoria contro il regime di arbitrio e violenza che si è instaurato a Roma e del quale proprio il figlio del fratello è il maggiore responsabile. L’oratore fa appello più volte al suo ruolo di patruus: non solo spiegando che in ragione della sua stretta parentela con il decemviro l’eventuale disonore di quest’ultimo ricadrebbe inevitabilmente anche su di lui, ma rendendo noto che egli ha più volte, in forma privata, cercato di indurre Appio a recedere dalla sua ricerca di un potere tirannico, senza essere mai riuscito neppure a farsi ricevere in casa da lui1. Tra l’altro, dalle parole di Gaio si evince che il padre del decemviro era morto: una circostanza che faceva del patruus non un semplice doppio, ma un vero e proprio sostituto della figura paterna, dalla quale ereditava il diritto-dovere di intervenire nel momento in cui il nipote trasgrediva tanto le tradizioni della famiglia quanto le regole della vita associata. Inutile dire che Appio, in conformità con la sua indole, non terrà in alcun conto gli ammonimenti del patruus; al quale non resterà dunque che recarsi in volontario esilio a Regillo, la città sabina dalla quale i Claudi erano venuti alcune generazioni prima.

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