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Miti

Tarchezio e i figli del focolare

Un giorno nel focolare della reggia di Alba Longa apparve un membro virile. Consultato l’oracolo, il re Tarchezio apprese che una vergine doveva congiungersi con quel fallo per dare alla luce un bambino destinato a distinguersi per valore, fortuna e forza. Allora il re ordinò alla figlia di unirsi al fallo, però questa mandò al suo posto una schiava; quando venne a sapere la verità, Tarchezio condannò a morte le due fanciulle, ma la dea Vesta gli apparve in sogno vietandogli di ucciderle. Il re le fece allora imprigionare e ordinò loro di tessere una tela, al termine della quale le avrebbe fatte sposare. Si trattava in realtà di un inganno: di notte la tela, per ordine di Tarchezio, veniva disfatta. Intanto la serva che si era unita al fallo generò due gemelli (Romolo e Remo), che il re consegnò a un certo Terazio perché li uccidesse. L’uomo li espose presso un fiume dove furono allattati da una lupa e nutriti da uccelli di ogni tipo. In seguito, furono trovati da un pastore che li portò con sé e li allevò. Divenuti adulti, i gemelli assalirono Tarchezio e lo sconfissero1.

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Romolo e Remo, tra adolescenza e età adulta

I figli di Marte (Romolo e Remo) erano cresciuti fino ai diciotto anni e già si vedeva spuntar loro la barba sotto i biondi capelli. I fratelli rendevano giustizia a tutti gli agricoltori e pastori vittime delle razzie di predoni, riportando ai legittimi proprietari i buoi rubati. Poi, quando vennero a conoscenza delle proprie origini, la scoperta dell’identità del padre aumentò il loro coraggio. A quel punto si vergognarono che la loro fama fosse limitata a poche capanne. Così Romolo uccise l’usurpatore Amulio e restituì il regno al vecchio avo1.

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Romolo e Remo, origine dei Lupercalia

Il Palatino era in festa: i pastori celebravano i consueti sacrifici in onore di Fauno. Mentre i sacerdoti erano intenti a preparare le viscere di una capretta, d’un tratto si odono le urla di un pastore: «Romolo, Remo, i predoni rubano i nostri animali!». I gemelli si attivano immediatamente e nudi come sono si lanciano all’inseguimento, da una parte Romolo con il gruppo dei Quintili, dall’altra Remo con il gruppo dei Fabi. Remo per primo riesce a recuperare gli animali rapiti e, tornando al banchetto, consuma le viscere; poco dopo torna anche Romolo, che al vedere la tavola vuota e le ossa spolpate si mette a ridere. Per questo ogni anno i Luperci corrono nudi1.

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Virtù dei giovani e virtù dei vecchi

Un tempo le teste canute e le rughe senili godevano di grande rispetto e valore. Mentre la gioventù era impegnata nelle opere belliche, la vecchiaia, età inadatta alle armi, recava aiuto alla città con la saggezza dei consigli: a nessun altro si aprì la curia se non agli anziani e il senato prende il nome dall’età senile. Essi rendevano giustizia al popolo, camminavano in mezzo ai giovani senza che questi se ne dispiacessero, e nessuno in loro presenza osava toccare argomenti licenziosi. Fu Romolo che affidò il governo della nuova città a questi animi eletti che chiamò padri e consacrò agli anziani (maiores) il mese di maggio (maius). Dal nome dei giovani, invece, fu designato il mese di giugno (iunius)1.

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Divinizzazione di Romolo

Romolo passa in rassegna l’esercito nel Campo Marzio, quand’ecco all’improvviso scomparire il sole e venir giù un violento temporale. Fra lampi e tuoni il cielo si squarcia e Romolo sparisce dalla vista: era salito tra gli astri con i cavalli del padre o forse avvolto da una nube. Un fatto così straordinario provoca un turbamento generale; ci fu anche chi sospettò che il re fosse stato ucciso dai senatori. Eppure, l’ammirazione per l’eroe e la paura accreditarono sin da subito la prima versione1. Chi non ebbe dubbi fu Giulio Proculo, fedele amico di Romolo2. Ritornava da Alba Longa quando d’un tratto ebbe una visione sconvolgente, da fargli drizzare i capelli: di fronte a lui stava Romolo, più bello e più grande di un uomo. Gli parlò così: «Di’ai Quiriti che smettano di piangere! Offrano piuttosto incenso alla mia divinità, rendano onore al nuovo Quirino coltivando i costumi degli antenati!». Detto questo, sparì. Proculo riferì al popolo quanto aveva visto e udito e, subito, si costruì un tempio per il nuovo dio, da cui si denominarono un colle e le cerimonie sacre per lui istituite3.

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Romolo e Remo

Alla morte di Proca, i suoi due figli si contendono il trono di Alba Longa e Numitore, erede designato, viene spodestato dall’ambizioso fratello Amulio. Questi, temendo che la nascita di eredi maschi del fratello metta in pericolo il suo regno, fa consacrare Rea Silvia, figlia di Numitore, come vergine Vestale. La donna tuttavia mette alla luce due gemelli, attribuendone la paternità a Marte; in preda all’ira, Amulio fa allora imprigionare Rea Silvia e abbandona i due neonati nelle acque del Tevere. Provvidenzialmente, la cesta che contiene i gemelli viene deposta dalle acque ai piedi di un fico, sul terreno asciutto, e qui una lupa si avvicina ai bambini porgendo loro le sue mammelle gonfie di latte. Il pastore Faustolo, che assiste alla scena, decide di raccogliere i gemelli e di allevarli insieme alla moglie Larenzia. I fratelli crescono forti e gagliardi nelle campagne del Lazio finché un giorno uno di loro, Remo, viene catturato e consegnato al re Amulio, con l’accusa di aver condotto razzie nel territorio di Alba. Numitore riconosce allora il nipote e gli rivela la sua origine; altrettanto fa il pastore Faustolo con Romolo. I due gemelli, insieme ad alcuni compagni, attaccano la reggia, uccidono il tiranno e restituiscono il trono al nonno Numitore. A questo punto, i gemelli scelgono di andare a fondare una nuova città nei luoghi della loro infanzia. I contrasti, però, cominciano già con la scelta del nome da assegnare alla città, e la brama di potere prende facilmente il sopravvento. Dopo aver deciso di dirimere la controversia rimettendo agli dèi la scelta del fondatore, Romolo e Remo si posizionano rispettivamente sul Palatino e sull’Aventino per osservare i segni celesti. A Remo appaiono subito sei avvoltoi, ma proprio mentre tale annuncio viene portato a Romolo, questi scorge un numero doppio di uccelli. Ciascun gruppo di sostenitori acclama il proprio re, appellandosi al primato temporale o alla superiorità numerica; nella contesa che segue, Remo cade in battaglia. Secondo una diversa versione, è Romolo stesso a trucidare il fratello, reo di aver scavalcato le nuove mura in segno di scherno. In ogni caso, la città fu fondata e il gemello vincitore le diede il proprio nome1.

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Integrazione tra Romani e Sabini

Una volta conquistato il Campidoglio, i Sabini devono far fronte al rinnovato impeto delle truppe romane, ansiose di vendetta. Dalla mischia emergono due valorose figure: Mezio Curzio per i Sabini e Osto Ostilio per i Romani. Quest’ultimo però cade sul campo, gettando i compagni nello sconforto; Romolo supplica allora Giove di arrestare la fuga e salvare la città, promettendo in cambio la costruzione di un tempio al dio come “Statore”. I Romani riprendono a combattere e riescono a disarcionare dal cavallo Mezio Curzio; questi precipita quindi in una palude, nell’area che più tardi sarebbe stata occupata dal Foro. A ricordo dell’evento, tale parte del Foro sarà denominata Lacus Curtius. Sostenuto dalle acclamazioni dei Sabini, comunque, Mezio si tira fuori dall’acquitrino e la battaglia riprende nella valle fra Campidoglio e Palatino. Sono le donne sabine che a questo punto imprimono una svolta alle vicende, gettandosi in mezzo alle schiere e supplicando entrambe le parti di porre termine a quella che è divenuta ormai una guerra civile. Gli uomini in lotta, commossi dall’accorato appello, acconsentono alla pace e decidono di fondere le due città. I Sabini si trasferiscono a Roma, dove Tazio diviene re al pari di Romolo. La diarchia così inaugurata prosegue all’insegna della piena concordia, finché un sinistro incidente non spezza la vita del coreggente sabino. Alcuni parenti di Tazio usano violenza contro gli ambasciatori dei Laurentini, e allorché questi domandano giustizia, Tazio non ha la forza di opporsi alle suppliche dei suoi. Perciò, quando il re sabino si reca a Lavinio allo scopo di celebrare un sacrificio, i Laurentini si vendicano uccidendolo12.

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Morte di Tito Tazio: empietà e contaminazione

È infatti a Lavinio che si consuma un altro gesto di empietà e violenza, teso a pareggiare il debito di sangue: Tazio è assassinato mentre officia un sacrificio, in un momento in cui la prassi religiosa esige il massimo della purezza e dello scrupolo. Accade invece che il re sabino muoia «trafitto presso gli altari dai coltelli sacrificali e dagli spiedi utilizzati per trapassare i buoi»1. Il sangue degli animali consacrati, offerto per la città e per gli dèi, è orribilmente mescolato a quello del celebrante, al culmine di una faida fra popoli consanguinei. Al delitto fanno seguito una serie di eventi infausti: un’inattesa pestilenza si abbatte sugli abitanti di Roma e Lavinio, la terra e gli animali domestici divengono sterili e una pioggia di sangue si rovescia sui luoghi. Né i Romani né i Laurentini hanno dubbi sul fatto che l’ira divina sia stata provocata dai due atti di empietà rimasti inespiati: l’omicidio degli ambasciatori e il linciaggio di Tazio. Dopo la morte di quest’ultimo, infatti, Romolo si era rifiutato di punire i colpevoli, asserendo che il primo fatto di sangue era stato cancellato dal secondo. Nessun effetto sortisce comunque la sollecitudine religiosa con cui Romolo dà sepoltura al collega sull’Aventino, istituendo presso la sua tomba un culto funebre che prevede l’offerta annuale di libagioni a spese della comunità, identiche a quelle che si versavano sul Campidoglio per l’ambigua eroina Tarpea. Il re deve dunque rassegnarsi a fare piena giustizia: vengono puniti sia gli aggressori degli ambasciatori laurentini sia gli assassini di Tazio e le due città sono purificate attraverso apposite cerimonie lustrali. Anche questi riti entrarono nell’uso tradizionale ed ebbero come sfondo, nei secoli successivi, una non meglio precisata Porta Ferentina2.

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Romolo organizza il ratto delle Sabine

Romolo capisce ben presto che la città da lui fondata non avrebbe superato la prima generazione per l’assoluta mancanza di donne. In un primo tempo invia delegazioni presso le città limitrofe a chiedere loro di «mescolare la stirpe», ma le risposte ricevute sono sprezzanti; il fondatore decide allora di ricorrere all’astuzia. Organizza a Roma un grande spettacolo, al quale sono invitati i popoli vicini; a un segnale convenuto i giovani romani si lanciano sulle donne presenti, avendo cura di rapire solo le vergini. Le ragazze sono quindi condotte alla presenza di Romolo, che le unisce in matrimonio ad altrettanti cittadini, invitandole ad amare i mariti che la sorte ha assegnato a ciascuna1.

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Le Sabine si oppongono alla guerra

Dopo il rapimento, i congiunti delle Sabine avviano i preparativi per la guerra. Quando però le schiere contrapposte sono sul punto di scontrarsi, le donne si interpongono fra gli eserciti e sotto la guida di Ersilia, moglie di Romolo, scongiurano il conflitto fratricida, mostrando i figli che molte di loro hanno generato e invitando quanti sono diventati parenti, sia pure loro malgrado, a non macchiarsi del sangue di suoceri e generi .

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Destino comune tra Romolo e Remo

A lungo le biografie di Romolo e Remo scorrono perfettamente parallele: entrambi sono abbandonati nel fiume, entrambi vengono deposti dalla piena sulle rive e qui nutriti da una lupa e da un picchio, entrambi sono raccolti e allevati dal pastore Faustolo e dalla sua compagna Acca Larenzia, entrambi crescono robusti e forti e divengono presto una sorta di raddrizzatori di torti per i pastori delle campagne laziali. La loro specularità è legata anzitutto al tratto della nascita gemellare, che costituisce una sorta di fraternità rafforzata, ed è marcata persino dalla loro onomastica, specie in quelle varianti che chiamano Romo il fratello di Romolo o propongono una coppia Remo e Romo; se poi il fratello, come riteneva l’erudito Nigidio Figulo, è «quasi un secondo sé stesso», non stupisce che Romolo fosse chiamato anche Altellus, il “Piccolo altro”, come se la sua identità potesse definirsi solo in rapporto a quella del suo gemello1.

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Differenze tra Romolo e Remo

In uno degli episodi che li vedono congiuntamente protagonisti, Romolo e Remo stanno celebrando un sacrificio in onore del dio Fauno quando vengono avvertiti che si è verificato un furto di bestiame nelle campagne circostanti e corrono in direzioni diverse. Remo in questo caso è più rapido e rientra prima del fratello nel luogo del sacrificio; lui e i suoi seguaci consumano allora le carni senza attendere l’arrivo di Romolo, al quale vengono lasciate le sole ossa1. In questo racconto (che costituisce il mito di fondazione dei Lupercalia, celebrati ogni anno il 15 febbraio da due gruppi di giovani che percorrono in direzioni opposte il perimetro del Palatino) Remo riesce dunque a risolvere più rapidamente del fratello la situazione di crisi per la quale è stato chiamato in causa; al tempo stesso, però, egli viola il principio della commensalità e dell’equa distribuzione delle carni fra due figure gerarchicamente paritetiche, impegnate nella celebrazione del medesimo rito. In un successivo momento della saga è invece Remo a lasciarsi catturare dai pastori di Alba Longa e Romolo a organizzare le forze in vista della sua liberazione; lo stesso nome Remus viene connesso da una parte della tradizione all’aggettivo remores, con il quale si designavano gli individui caratterizzati da lentezza nel corpo e ottusità nella mente2.

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Contesa per la fondazione di Roma e morte di Remo

Dalla cima dell’Aventino Remo scorge per primo sei avvoltoi, ma Romolo, che aveva invece scelto come punto di osservazione il Palatino, ne vede un numero doppio ed esce vincitore dalla contesa. Quando Romolo prende a innalzare le mura della nuova città, Remo irride all’iniziativa del fratello e scavalca facilmente la cerchia ancora in costruzione, venendo per questo ucciso da Romolo, monito per chiunque in futuro oserà violare la cinta urbana. Questa versione presenta peraltro una serie di varianti, volte ad attenuare o cancellare l’elemento disturbante del fratricidio: talora l’uccisione di Remo è imputata all’iniziativa di un certo Celere, variamente identificato in uno dei lavoranti impegnati nella costruzione del muro, nell’individuo che presiedeva alla costruzione stessa o in un ufficiale dell’esercito o della cavalleria. Altre versioni fanno invece perire Remo in un momento precedente, nel corso dei disordini succeduti alla presa degli auspici, e un racconto isolato parla persino di un Remo sopravvissuto alla morte del fratello. La coppia gemellare, disfatta dal fratricidio, si ricostituisce peraltro in effigie: dopo la scomparsa di Remo scoppia una pestilenza, oppure si verificano terremoti o disordini, che gli oracoli ordinano di espiare attraverso la costruzione di una statua d’oro di Remo da collocare accanto al trono romuleo1.

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