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Miti

Clelia e Porsenna

Tra gli ostaggi di Porsenna vi erano anche ragazze di nobili famiglie romane. Una di queste, Clelia, ebbe l'ardire di scappare, insieme alle sue compagne, attraversando a nuoto il Tevere, mentre i nemici le scagliavano contro una fitta pioggia di dardi. Porsenna in un primo momento chiese la restituzione di Clelia, poi iniziò a provare ammirazione per il coraggio della fanciulla e fece sapere ai Romani che, se avessero consegnato l’ostaggio, lo avrebbe rimandato illeso. In segno di rispetto della parola data i Romani cedettero Clelia a Porsenna, che non solo ne lodò il comportamento, ma le concesse la metà degli ostaggi. Anche i Romani apprezzarono l’impresa di Clelia e premiarono il suo coraggio con un nuovo genere di onore, una statua equestre sulla via Sacra1.

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Devotio e morte del console Decio

L’esito della battaglia tra Romani e Latini era incerto e il console Decio capì che era giunto il momento di interpellare il pontefice massimo; seguendone i suggerimenti, indossò la toga pretesta e, in piedi sopra un giavellotto, pronunciò con il capo velato una lunga preghiera nella quale si consacrava agli dèi Mani e a Tellus, in cambio della vittoria dell’esercito romano. Poi salì a cavallo armato e si gettò in mezzo ai nemici. In questo preciso momento accadeva qualcosa di straordinario: il console appariva più grande di un essere umano; sembrava una vittima espiatoria dell’ira degli dèi, inviata dal cielo per allontanare la rovina dai suoi e riversarla sui nemici. Questi, atterriti e confusi, si allontanarono. I Romani invece, liberati da ogni timore, ripresero la battaglia come se avessero ricevuto il primo segnale di guerra proprio in quell’istante1.

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Integrazione tra Romani e Sabini

Una volta conquistato il Campidoglio, i Sabini devono far fronte al rinnovato impeto delle truppe romane, ansiose di vendetta. Dalla mischia emergono due valorose figure: Mezio Curzio per i Sabini e Osto Ostilio per i Romani. Quest’ultimo però cade sul campo, gettando i compagni nello sconforto; Romolo supplica allora Giove di arrestare la fuga e salvare la città, promettendo in cambio la costruzione di un tempio al dio come “Statore”. I Romani riprendono a combattere e riescono a disarcionare dal cavallo Mezio Curzio; questi precipita quindi in una palude, nell’area che più tardi sarebbe stata occupata dal Foro. A ricordo dell’evento, tale parte del Foro sarà denominata Lacus Curtius. Sostenuto dalle acclamazioni dei Sabini, comunque, Mezio si tira fuori dall’acquitrino e la battaglia riprende nella valle fra Campidoglio e Palatino. Sono le donne sabine che a questo punto imprimono una svolta alle vicende, gettandosi in mezzo alle schiere e supplicando entrambe le parti di porre termine a quella che è divenuta ormai una guerra civile. Gli uomini in lotta, commossi dall’accorato appello, acconsentono alla pace e decidono di fondere le due città. I Sabini si trasferiscono a Roma, dove Tazio diviene re al pari di Romolo. La diarchia così inaugurata prosegue all’insegna della piena concordia, finché un sinistro incidente non spezza la vita del coreggente sabino. Alcuni parenti di Tazio usano violenza contro gli ambasciatori dei Laurentini, e allorché questi domandano giustizia, Tazio non ha la forza di opporsi alle suppliche dei suoi. Perciò, quando il re sabino si reca a Lavinio allo scopo di celebrare un sacrificio, i Laurentini si vendicano uccidendolo12.

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Morte di Tito Tazio: empietà e contaminazione

È infatti a Lavinio che si consuma un altro gesto di empietà e violenza, teso a pareggiare il debito di sangue: Tazio è assassinato mentre officia un sacrificio, in un momento in cui la prassi religiosa esige il massimo della purezza e dello scrupolo. Accade invece che il re sabino muoia «trafitto presso gli altari dai coltelli sacrificali e dagli spiedi utilizzati per trapassare i buoi»1. Il sangue degli animali consacrati, offerto per la città e per gli dèi, è orribilmente mescolato a quello del celebrante, al culmine di una faida fra popoli consanguinei. Al delitto fanno seguito una serie di eventi infausti: un’inattesa pestilenza si abbatte sugli abitanti di Roma e Lavinio, la terra e gli animali domestici divengono sterili e una pioggia di sangue si rovescia sui luoghi. Né i Romani né i Laurentini hanno dubbi sul fatto che l’ira divina sia stata provocata dai due atti di empietà rimasti inespiati: l’omicidio degli ambasciatori e il linciaggio di Tazio. Dopo la morte di quest’ultimo, infatti, Romolo si era rifiutato di punire i colpevoli, asserendo che il primo fatto di sangue era stato cancellato dal secondo. Nessun effetto sortisce comunque la sollecitudine religiosa con cui Romolo dà sepoltura al collega sull’Aventino, istituendo presso la sua tomba un culto funebre che prevede l’offerta annuale di libagioni a spese della comunità, identiche a quelle che si versavano sul Campidoglio per l’ambigua eroina Tarpea. Il re deve dunque rassegnarsi a fare piena giustizia: vengono puniti sia gli aggressori degli ambasciatori laurentini sia gli assassini di Tazio e le due città sono purificate attraverso apposite cerimonie lustrali. Anche questi riti entrarono nell’uso tradizionale ed ebbero come sfondo, nei secoli successivi, una non meglio precisata Porta Ferentina2.

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La vestale Opimia rompe la castità

Mentre i Romani si accingono a intraprendere una guerra contro Veienti e Volsci, una serie di prodigi segnala la collera degli dèi e preannuncia una sciagura imminente. L’origine dei fenomeni viene individuata nel fatto che la Vestale Opimia (Oppia, secondo altre fonti), avendo perduto la verginità, contaminava i rituali. Così, a causa della sua impurità, la sacerdotessa fu condannata a morte1.

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Appio Claudio attenta alla verginità di Virginia

Il decemviro Appio Claudio è preso dal desiderio di violare una vergine plebea di straordinaria bellezza, figlia di Lucio Virginio. Appio tenta dapprima di sedurre la ragazza con l’offerta di un compenso, ma, ostacolato dal pudore di lei, sceglie di ricorrere alla violenza. Incarica un suo cliente di dichiarare che la vergine era figlia di una sua schiava e dunque di sua proprietà. Quello obbedisce, ma dal momento che una gran folla accorre per impedire quell’ingiustizia, il cliente cita la ragazza in giudizio presso il tribunale di Appio, il quale acconsente a che l’uomo la conduca a casa sua. Ma Icilio, cui la giovane era promessa, protesta e ottiene che sia mandato a chiamare il padre di lei, impegnato in una campagna di guerra. Intanto Appio stabilisce che Virginia sia data in schiava a chi la rivendica. Virginio chiede allora un momento perché, in disparte con la figlia, possa interrogare la nutrice sulla sua nascita. Conduce quindi la giovane nei pressi delle Botteghe nuove e, afferrato un coltello, le trafigge il petto. I Romani piansero il delitto di Appio, la funesta bellezza della fanciulla e l’ineluttabile decisione paterna1.

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Le oche del Campidoglio

Sconfitti sull’Allia da un contingente gallico, nell’anno 390 a.C., i Romani si rifugiano in città e meditano di riunirsi tutti sulla rocca capitolina. Constatando che il luogo non li avrebbe potuti contenere tutti, decidono che a presidio del Campidoglio rimangano solamente gli uomini validi insieme alla loro mogli e figli. I sacra publica vengono nascosti in luogo sicuro. Molti plebei si rifugiano sul Gianicolo, mentre gli anziani di rango senatoriale attendono con dignità la morte negli atrii delle loro case patrizie. I Galli notano il passaggio di un messaggero romano e scoprono in questo modo che l’accesso alla rocca è possibile dalla parete di roccia chiamata saxum Carmentis – il lato verso il Tevere su cui invece i Romani contavano di essere protetti (altri dicono che passarono invece per dei cunicoli che li condussero direttamente nell’area del tempio di Giove). In una notte luminosa, aiutandosi l’un l’altro e in perfetto silenzio, scalano la roccia e si affacciano alla sommità del colle. Le sentinelle non li sentono. Nemmeno i cani guardiani rilevano la loro presenza – e qualcuno insinuerà poi che si siano venduti al nemico per un tozzo di pane in cambio del silenzio1. Ad un certo punto, un allarme scuote tutti dal sonno: alcune oche, che avevano percepito l’avvicinarsi di intrusi, iniziano a starnazzare rumorosamente e a produrre un grande trambusto con il loro concitato sbattere d’ali – «svolazzando nei dorati portici l’oca argentea annunciava che i Galli erano alla soglia»2. Nonostante la scarsità di cibo affliggesse tutti gli assediati – umani e animali – i Romani non avevano osato toccare le oche, che erano sacre a Giunone, e venivano ora ripagati del loro rispetto; le oche, dal canto loro, erano insonni e reattive più del solito proprio per la fame che le attanagliava e perciò avevano avvertito la silenziosa presenza dei Galli3. La reazione pronta dei Romani – primo fra tutto Marco Manlio – allo schiamazzo degli animali consente di respingere i Galli e di salvare i sacri luoghi del Campidoglio. Il giorno seguente a Manlio vengono tributati onori, mentre le sentinelle inefficienti vengono messe sotto accusa e una di loro viene condannata a morte e precipitata dalla rupe.

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Anchise assume il comando del viaggio

Al momento della partenza da Troia Anchise ordina di issare le vele, invita a dirigere prima verso Creta, poi in direzione dell’Italia, invoca gli dèi e ne interpreta segnali e indicazioni. Virgilio ne parla ripetutamente come del «padre Anchise», attribuendogli un ruolo di comando e rispettando in questo modo le convenienze, come osservano i commentatori tardo-antichi dell’Eneide, poiché dal punto di vista dei Romani quella funzione direttiva non può che spettare alla figura paterna.

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Anchise appare in sogno ad Enea e profetizza la storia di Roma

Anchise appare in sogno a Enea, che a Cartagine si è legato alla regina Didone, invitandolo con insistenza a partire1; al momento della seconda sosta in Sicilia, la sua immagine suggerisce a Enea di lasciare nell’isola una parte del suo equipaggio e di condurre in Italia solo i «cuori più forti», preannunciando al figlio l’incontro che i due avranno nel regno dei morti e le guerre che attendono Enea una volta raggiunta la sua meta2. Nei Campi Elisi, a colloquio con il figlio, Anchise mostra a Enea i futuri eroi della storia romana, in quel momento ancora anime in attesa di incarnarsi, in una vertiginosa prospettiva che condensa un millennio di storia3, e insieme illustra al figlio i costumi di Roma, i tratti peculiari che ne definiscono l’identità, fino a rivendicare per i Romani il dominio del mondo4.

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Coriolano vive senza padre e senza agnati

Gneo Marcio si è guadagnato il proprio cognome dopo la conquista della città volsca di Corioli; nei conflitti tra patriziato e plebe assume una posizione filo-aristocratica, attirandosi l’ostilità dei tribuni della plebe e una convocazione a giudizio, cui Coriolano rifiuta di presentarsi, subendo per questo la condanna all’esilio. La sua vita si è svolta non solo senza il padre, morto quando Gneo era ancora un bambino, ma senza nessuno di quelli che i Romani chiamano agnati, i parenti in linea paterna: una condanna che egli infliggerà a sua volta ai propri figli, dai quali si congeda affermando di lasciarli orfani e soli e di affidarli alle sole cure delle donne di casa, in una sorta di perversa ripetizione della sorte della quale lui stesso era stato vittima1. La madre Veturia, recatasi presso il suo accampamento, riesce infine a distoglierlo dal porre l’assedio alla città, invocando i diritti di chi aveva portato in grembo e poi allevato il futuro traditore; quanto a Coriolano, sulla sua morte circolano versioni diverse, ma essa viene immaginata in ogni caso come disonorevole e infelice.

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Venere aiuta il figlio Enea

È in particolare l’Eneide virgiliana a concedere a Venere uno spazio di primo piano. Sin dall’inizio del poema è la dea, angosciata per la sorte di Enea, a lamentarsi con Giove per la tempesta che trattiene i Troiani lontani dall’Italia; quando essi fanno naufragio sulla costa africana, Venere si mostra al figlio sotto le vesti di una giovane cacciatrice e gli offre le informazioni essenziali per orientarsi in una situazione potenzialmente rischiosa. Di lì a poco ancora Venere avvolge Enea in una nube che gli consente di muoversi in piena sicurezza nella terra straniera, quindi, per proteggere il figlio dalla doppiezza dei Fenici e dall’ostilità di Giunone, cui Cartagine è consacrata, invia Cupido da Didone perché induca la regina a innamorarsi dell’ospite troiano. Nuovamente tormentata dall’angoscia, prega Nettuno di garantire a Enea, salpato dalla Sicilia, una navigazione propizia; e quando l’eroe avvia la ricerca del ramo d’oro che gli consentirà di accedere al regno dei morti, l’apparizione di due colombe, uccelli sacri a Venere, viene interpretata come un segno dell’incessante vigilanza materna. Assente nelle prime fasi dello sbarco in Italia, Venere torna in scena per chiedere al marito Vulcano di approntare nuove armi per Enea, quindi le consegna personalmente al figlio e gli concede quell’abbraccio cui si era sottratta sulla costa di Cartagine. La dea non si tiene lontana neppure dai campi di battaglia, intervenendo ripetutamente a protezione del figlio fino al duello finale con Turno. Virgilio non rinuncia infine a una vertiginosa apertura sul futuro: tra le scene effigiate sullo scudo di Enea, Venere compare nel quadro dedicato alla battaglia di Azio mentre sostiene Augusto nello scontro con le forze umane e divine dell’Oriente. Sollecita verso Enea, Venere non sarà meno attiva al fianco dei suoi discendenti, che si tratti del futuro principe o dei Romani nel loro complesso.

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