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Miti

Nascita di Ceculo

A Preneste, non lontano da Roma, vi erano due fratelli chiamati divi. Un giorno la loro sorella, mentre sedeva presso il focolare, fu resa gravida da una scintilla e diede alla luce un bambino, che poco dopo abbandonò vicino al tempio di Giove. In seguito, alcune fanciulle che andavano a raccogliere l’acqua lo trovarono accanto al fuoco; per questo il bambino fu considerato figlio di Vulcano. Inoltre, venne chiamato Ceculo (Piccolo cieco) perché a causa del fumo i suoi occhi erano più piccoli del normale1.

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Nascita di Scipione

Giunto negli Inferi, Scipione incontra l’ombra della madre Pomponia, la quale svela al figlio l’arcano della sua nascita: un giorno, approfittando del suo sonno, Giove l’aveva posseduta con l’inganno, assumendo le sembianze di un serpente. Il suo rammarico più grande era quello di esser morta subito dopo il parto portando con sé questo segreto1.

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Gli inferi regno del silenzio: la ninfa Giuturna

Giove si innamora follemente della ninfa Giuturna, la quale sfugge in ogni modo alle sue lusinghe. Un giorno, stanco delle umiliazioni cui l’amata lo sottopone, il dio raduna tutte le ninfe del Lazio e ordina loro di aiutarlo nell’impresa di possedere la ninfa. Acconsentono tutte tranne Lara, che aveva il grosso difetto di parlare troppo. Non solo avverte Giuturna delle intenzioni di Giove, ma riferisce tutto anche a Giunone. Giove, infuriato, le strappa la lingua e la affida a Mercurio perché la conduca agli inferi, luogo adatto ai silenziosi: da questo momento Lara sarà una ninfa della palude infera1.

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Morte di Tullo Ostilio

Sotto il regno di Tullo Ostilio, a Roma, scoppia una grave pestilenza, che finisce per colpire lo stesso sovrano. Così proprio lui, che aveva sempre ritenuto indegne di un re le pratiche religiose, d’un tratto divenne schiavo di ogni genere di superstizione. Tutti sapevano che per ottenere la salvezza di quei corpi malati era opportuno invocare l’aiuto degli dèi seguendo le prescrizioni di Numa. E così il re in persona si mise a consultare i libri di Numa, alla ricerca disperata di un rimedio sicuro al suo male. Dopo attenta lettura, trovò in quei libri la descrizione dei sacrifici in onore di Giove Elicio e si ritirò in solitudine nella reggia sul Celio, per compiere quel rito da solo, di nascosto da tutti. Ma stava sbagliando ogni cosa: non solo celebrava per se stesso riti pattuiti da Giove e Numa per il bene collettivo, ma non rispettava neppure il Coretto svolgimento della pratica rituale. E allora Giove, irato per tanta tracotanza ed esasperato dall’irregolarità del rito, fulminò il re e lo incenerì insieme alla sua casa1.

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Integrazione tra Romani e Sabini

Una volta conquistato il Campidoglio, i Sabini devono far fronte al rinnovato impeto delle truppe romane, ansiose di vendetta. Dalla mischia emergono due valorose figure: Mezio Curzio per i Sabini e Osto Ostilio per i Romani. Quest’ultimo però cade sul campo, gettando i compagni nello sconforto; Romolo supplica allora Giove di arrestare la fuga e salvare la città, promettendo in cambio la costruzione di un tempio al dio come “Statore”. I Romani riprendono a combattere e riescono a disarcionare dal cavallo Mezio Curzio; questi precipita quindi in una palude, nell’area che più tardi sarebbe stata occupata dal Foro. A ricordo dell’evento, tale parte del Foro sarà denominata Lacus Curtius. Sostenuto dalle acclamazioni dei Sabini, comunque, Mezio si tira fuori dall’acquitrino e la battaglia riprende nella valle fra Campidoglio e Palatino. Sono le donne sabine che a questo punto imprimono una svolta alle vicende, gettandosi in mezzo alle schiere e supplicando entrambe le parti di porre termine a quella che è divenuta ormai una guerra civile. Gli uomini in lotta, commossi dall’accorato appello, acconsentono alla pace e decidono di fondere le due città. I Sabini si trasferiscono a Roma, dove Tazio diviene re al pari di Romolo. La diarchia così inaugurata prosegue all’insegna della piena concordia, finché un sinistro incidente non spezza la vita del coreggente sabino. Alcuni parenti di Tazio usano violenza contro gli ambasciatori dei Laurentini, e allorché questi domandano giustizia, Tazio non ha la forza di opporsi alle suppliche dei suoi. Perciò, quando il re sabino si reca a Lavinio allo scopo di celebrare un sacrificio, i Laurentini si vendicano uccidendolo12.

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Enea e il mantello di Didone

Dalla loro prima unione nella spelonca, Enea e Didone non si sono più separati e la regina, presa dall’amore, si dimentica del regno e dei suoi doveri. I due amanti passano l’inverno nelle mollezze, rapiti da una vergognosa passione, finché la fama di quell’unione giunge alle orecchie di Iarba, il pretendente respinto, che sdegnato invoca l’intervento degli dèi. Lo sente Giove e ordina a Mercurio di richiamare Enea al suo destino: reggere l’Italia dopo un’aspra guerra, fondare dal nobile sangue di Teucro una nuova stirpe e sottomettere il mondo intero alle sue leggi. Mercurio scende rapido sulla terra e scorge Enea col mantello di porpora che Didone ha tessuto per lui, intento a fabbricare case per la sua regina, e lo investe con una dura invettiva, trasmettendogli l’ordine di salpare che viene direttamente da Giove. Scosso da quell’apparizione, Enea torna in sé e si decide a partire1.

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Morte di Semele e nascita di Bacco

Semele non è certa che il suo focoso amante sia davvero Giove, il padre degli dèi. Teme un inganno. Così, gli chiede di mostrarsi in tutto il suo potere, fulmini e saette comprese. Giove, che ha ormai promesso di esaudirla, non può rifiutare. Così richiama a sé tutta la sua potenza divina e, in quel modo, la incenerisce. Semele, però, era incinta di Bacco; Giove allora, deciso a salvare il bambino, che non era ancora ben formato, se lo ricuce nella coscia e successivamente porta a compimento i tempi materni della gestazione. Così la funzione della madre viene espletata dal corpo del padre1.

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Le oche del Campidoglio

Sconfitti sull’Allia da un contingente gallico, nell’anno 390 a.C., i Romani si rifugiano in città e meditano di riunirsi tutti sulla rocca capitolina. Constatando che il luogo non li avrebbe potuti contenere tutti, decidono che a presidio del Campidoglio rimangano solamente gli uomini validi insieme alla loro mogli e figli. I sacra publica vengono nascosti in luogo sicuro. Molti plebei si rifugiano sul Gianicolo, mentre gli anziani di rango senatoriale attendono con dignità la morte negli atrii delle loro case patrizie. I Galli notano il passaggio di un messaggero romano e scoprono in questo modo che l’accesso alla rocca è possibile dalla parete di roccia chiamata saxum Carmentis – il lato verso il Tevere su cui invece i Romani contavano di essere protetti (altri dicono che passarono invece per dei cunicoli che li condussero direttamente nell’area del tempio di Giove). In una notte luminosa, aiutandosi l’un l’altro e in perfetto silenzio, scalano la roccia e si affacciano alla sommità del colle. Le sentinelle non li sentono. Nemmeno i cani guardiani rilevano la loro presenza – e qualcuno insinuerà poi che si siano venduti al nemico per un tozzo di pane in cambio del silenzio1. Ad un certo punto, un allarme scuote tutti dal sonno: alcune oche, che avevano percepito l’avvicinarsi di intrusi, iniziano a starnazzare rumorosamente e a produrre un grande trambusto con il loro concitato sbattere d’ali – «svolazzando nei dorati portici l’oca argentea annunciava che i Galli erano alla soglia»2. Nonostante la scarsità di cibo affliggesse tutti gli assediati – umani e animali – i Romani non avevano osato toccare le oche, che erano sacre a Giunone, e venivano ora ripagati del loro rispetto; le oche, dal canto loro, erano insonni e reattive più del solito proprio per la fame che le attanagliava e perciò avevano avvertito la silenziosa presenza dei Galli3. La reazione pronta dei Romani – primo fra tutto Marco Manlio – allo schiamazzo degli animali consente di respingere i Galli e di salvare i sacri luoghi del Campidoglio. Il giorno seguente a Manlio vengono tributati onori, mentre le sentinelle inefficienti vengono messe sotto accusa e una di loro viene condannata a morte e precipitata dalla rupe.

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Venere aiuta il figlio Enea

È in particolare l’Eneide virgiliana a concedere a Venere uno spazio di primo piano. Sin dall’inizio del poema è la dea, angosciata per la sorte di Enea, a lamentarsi con Giove per la tempesta che trattiene i Troiani lontani dall’Italia; quando essi fanno naufragio sulla costa africana, Venere si mostra al figlio sotto le vesti di una giovane cacciatrice e gli offre le informazioni essenziali per orientarsi in una situazione potenzialmente rischiosa. Di lì a poco ancora Venere avvolge Enea in una nube che gli consente di muoversi in piena sicurezza nella terra straniera, quindi, per proteggere il figlio dalla doppiezza dei Fenici e dall’ostilità di Giunone, cui Cartagine è consacrata, invia Cupido da Didone perché induca la regina a innamorarsi dell’ospite troiano. Nuovamente tormentata dall’angoscia, prega Nettuno di garantire a Enea, salpato dalla Sicilia, una navigazione propizia; e quando l’eroe avvia la ricerca del ramo d’oro che gli consentirà di accedere al regno dei morti, l’apparizione di due colombe, uccelli sacri a Venere, viene interpretata come un segno dell’incessante vigilanza materna. Assente nelle prime fasi dello sbarco in Italia, Venere torna in scena per chiedere al marito Vulcano di approntare nuove armi per Enea, quindi le consegna personalmente al figlio e gli concede quell’abbraccio cui si era sottratta sulla costa di Cartagine. La dea non si tiene lontana neppure dai campi di battaglia, intervenendo ripetutamente a protezione del figlio fino al duello finale con Turno. Virgilio non rinuncia infine a una vertiginosa apertura sul futuro: tra le scene effigiate sullo scudo di Enea, Venere compare nel quadro dedicato alla battaglia di Azio mentre sostiene Augusto nello scontro con le forze umane e divine dell’Oriente. Sollecita verso Enea, Venere non sarà meno attiva al fianco dei suoi discendenti, che si tratti del futuro principe o dei Romani nel loro complesso.

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Venere e l'amore tra Enea e Didone

L’azione di Venere nell’Eneide si conforma a questo modello; tanto più fa spicco l’unica eccezione significativa, la scelta di innescare in Didone una divorante passione per l’ospite troiano, allo scopo di garantire la sicurezza di Enea durante il suo soggiorno in terra libica. L’iniziativa viene presentata espressamente come un’autonoma decisione della dea ed è proprio in seguito ad essa che Enea rischierà di smarrire la propria identità eroica e dimenticare le gloriose prospettive che lo attendono in Italia. Si tratta di un momento nel quale Venere occupa un vuoto – Anchise è morto prima del naufragio troiano sulle coste dell’Africa –, destinato tuttavia a essere colmato dall’intervento diretto di Giove: il re degli dèi richiama bruscamente l’eroe troiano al compito che gli è stato affidato, ponendo così rimedio a una sollecitudine materna che ha rischiato di dirottare il corso degli eventi verso una deriva certo rassicurante, ma insieme sterile e povera di futuro.

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Ceculo discende da Vulcano

A Preneste vivono due fratelli, forse divinità locali; la loro sorella, mentre siede presso la fiamma di un focolare, è colpita da una scintilla e in seguito a questo episodio rimane incinta. Dopo il parto, il bambino viene esposto nel tempio di Giove e qui ritrovato da alcune sacerdotesse; ha gli occhi più piccoli del normale per via del fumo che sale dal focolare acceso in permanenza nel santuario e per questo viene chiamato Ceculo, il “Piccolo cieco”, e considerato figlio di Vulcano, il dio che governa il fuoco. Sin qui la vicenda di Ceculo è dunque del tutto analoga a quella di tanti altri eroi fondatori: concepiti in modo anomalo, spesso esposti dopo la loro nascita ma capaci di sopravvivere in seguito a eventi in apparenza fortuiti, che segnalano in realtà la benevolenza divina nei loro confronti e la forza irresistibile del fato che li destina a grandi cose. Dopo un’adolescenza trascorsa nelle campagne dei Lazio e nella pratica del brigantaggio, Ceculo decide di fondare una città alla quale dà il nome di Preneste e per popolarla organizza uno spettacolo cui invita i popoli confinanti, chiedendo loro di abitare con lui in ragione della sua origine divina. La rivendicazione viene confermata dallo stesso Vulcano, che avvolge con un cerchio di fiamme la moltitudine confluita a Preneste1.

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